16 Venuta intanto la sera, i suoi discepoli scesero al mare, 17 salirono in barca e si avviarono verso l’altra riva del mare in direzione di Cafàrnao. Era ormai buio e Gesù non li aveva ancora raggiunti; 18 il mare era agitato, perché soffiava un forte vento. 19 Dopo aver remato per circa tre o quattro miglia, videro Gesù che camminava sul mare e si avvicinava alla barca, ed ebbero paura. 20 Ma egli disse loro: «Sono io, non abbiate paura!». 21 Allora vollero prenderlo sulla barca, e subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti.
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Propongo con cautela l’interpretazione della Parola che oggi il Signore ci dona. Consiglio che anche voi consideriate, se ne avete il tempo, i testi paralleli di Matteo 14,22 e di Marco 6, 45. La particolarità del nostro brano mi sembra farsi avanti subito nei vers.16-17. Sembra essere la risposta dei discepoli al ritirarsi del Signore nella solitudine orante del monte: come l’ipotesi di una separazione. Il buio e l’assenza di Gesù sembrano semplicemente un dato di fatto. E così pure il mare agitato e il forte vento. Sembra che tutto voglia semplicemente indicare l’inevitabile fatica della navigazione, un’immagine dell’esistenza umana così com’è, senza note particolari di allarme e di pericolo.
La paura – o forse, più profondamente, il timore! – sembra quindi causato dal fatto che Gesù cammina sul mare e si avvicina alla barca. Non la fatica della navigazione o una situazione di pericolo, ma la straordinarietà del suo “camminare sul mare” (il mare è spesso immagine biblica del male!), dominando quindi la potenza delle acque, e il suo farsi loro accanto, contrastante quindi dalla sua solitudine sul monte, separato da loro.
Ed ecco, al ver.20, la sua Parola, che è il cuore del nostro brano: “Sono Io, non abbiate paura”, che unisce l’antica vicenda della rivelazione del nome di Dio – “Io sono” – a Mosè (Esodo 3,1-15), con il “non abbiate paura” che necessariamente accompagna la rivelazione di Dio. Allora essi “vollero (!) prenderlo sulla barca”: è il linguaggio della fede! “E subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti”: il dono della fede è il dono della “vita eterna”, e dunque il dono della vita di Dio in chi crede. Subito si arriva. Fin d’ora!
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Quanti segnali negativi in questi versetti! E’ sera e si torna indietro; Gesù è assente e ci sono le tenebre, le stesse di cui si diceva nel Prologo. Il mare è agitato e soffia un forte vento. Solo Dio può camminare sulle acque e domare il mostro marino. Gesù quindi manifesta la pienezza della condizione divina, confermata anche a parola: “Io sono”. Perché la paura dei discepoli? Si può pensare al timore dell’uomo di fronte alla divinità che si rivela. Secondo p. Maggi, c’è qui un riferimento all’Esodo: Mosè, sceso dal monte e trovando gli israeliti infedeli e idolatri, aveva voluto una strage. I discepoli di Gesù, incerti nella fede, si sentono minacciati. Ma il Signore va ben oltre Mosè: “Non abbiate paura”, e subito la barca arriva alla meta.
LA TEMPESTA SUL LAGO
6,16-19. Venuta intanto la sera, i suoi discepoli scesero al mare e, saliti in una barca, si avviarono verso l’altra riva in direzione di Cafarnao. Era ormai buio, e Gesù non era ancora venuto da loro. Il mare era agitato, perché soffiava un forte vento. Dopo aver remato circa tre o quattro miglia, videro Gesù che camminava sul mare e si avvicinava alla barca ed ebbero paura.
I discepoli sono abituati alla notte, alla tempesta e alle onde alte. Queste cose possono al massimo infastidirli un poco, così come succede alla natura umana. Ma ad una cosa non sono più abituati: ad esser soli. Per loro è già diventata una seconda natura stare vicino al Signore. In passato, quando li aveva abbandonati per qualche istante, confidavano ch’egli sarebbe tornato presto. Non si erano sentiti abbandonati. Inoltre sapevano che il Signore avrebbe comunque dominato la situazione. Se c’era da fare qualcosa, la faceva lui, da solo o loro tramite. Ora è la prima volta da quando hanno imparato a conoscerlo e hanno cominciato a credere in lui che si sentono da lui abbandonati. Essere soli in una situazione favorevole lo sopporterebbero meglio. Ma essere abbandonati in questa situazione difficile non riescono a sopportarlo. Tutto in essi si ribella. Divenendo discepoli, avevano pensato d’aver affidato ogni re¬sponsabilità al Signore, che sarebbe bastato stare vicino a lui ed eseguire i suoi ordini precisi e impartiti con chiarezza. Non immaginavano in quale situazione imprevedibile si erano in verità cacciati. Si erano immaginato il loro servizio vicino al Signore in termini del tutto umani e ingenui come un rapporto servile tra superiore e sudditi, tra padrone e servo: l’uno comanda l’altro obbedisce. Anche se uno non capisce sempre perché una cosa viene comandata, tuttavia si trova sempre di fronte a un comando chiaro a cui attenersi. Già da tempo hanno creduto nella mis¬sione divina del Signore e hanno pensato che la sublimità della sua autorità divina li esenti da ogni autonoma responsabilità. Non sono aperti nei confronti dell’apertura sempre maggiore di Dio. Non sanno ancora che Dio non rende schiavi ma indipendenti, perché invia. Non presagiscono ancora nulla della responsabilità che il Signore dovrà loro affidare più tardi. Non capiscono d’aver ricevuto dal Signore tutto ciò che egli comunica loro: la sua compagnia ma anche la sua solitudine, i suoi comandi ma anche il suo silenzio, i suoi miracoli ma anche il grande mira¬colo del suo essere. La loro fede è ancora terrena e angusta e deve im¬parare a conoscere la vastità di Dio.
Ora vedono il Signore camminare sulle acque e avvicinarsi alla barca. Lo vedono in una maniera del tutto inattesa, mentre egli fa l’inaudito come se fosse la cosa più naturale. E poiché egli non viene come se l’aspettavano, sono presi dalla paura. Nulla hanno desiderato più arden¬temente che il Signore si avvicinasse di nuovo loro; ma adesso ch’egli è qui, il loro disagio naturale si trasforma in timor panico. Prima soffriva¬no per la sua lontananza solitaria. Ora questa solitudine viene loro, ma essi non la capiscono e la considerano minacciosa. In tal modo sperimen¬tano che la presenza del Signore può essere molto più insopportabile della sua assenza. Essa infatti viene in una maniera imprevista e non controllabile. La presenza del Signore ha la forma di un miracolo, il cui senso e la cui necessità non sono perspicui. Finora il Signore ha operato dei miracoli benefici solo verso l’esterno: per guarire un uomo (ma essi non sono malati), per portare alla fede un incredulo (ma essi credono già), per appagare un bisogno fisico (se egli vuol metter fine alla loro solitudine, perché non si unisce semplicemente ad essi?). Li spaventa l’idea ch’egli potrebbe operare un miracolo tanto straordinario specifica¬mente per loro. Se ne sentono minacciati e compromessi davanti a lui. Quel che li spaventa non è tanto la cosa incomprensibile in sé, quanto piuttosto il fatto ch’essa li investa, si avvicini e sia destinata personal¬mente e specificamente e loro. Forse non si libereranno mai più com¬pletamente di questa paura, che adesso imparano a conoscere per la pri¬ma volta: la paura dell’immenso, della scomparsa di tutte le misure, dell’essere oltrepassati, travolti, superati da tutti i lati. Nulla di quanto finora era stato considerato pacifico e sicuro possiede più la stessa ferma consistenza e vacilla. Quanto infatti sta qui venendo e che d’ora in poi verrà sempre più è illimitato. Essere soli era cosa spiacevole, ma molto più scomodo è essere costantemente con uno che non si conosce e che pure non si può respingere, con uno che ci sollecita ogni istante con la sua presenza e ci chiama senza parlare a rendere conto, con uno la cui misura fa continuamente naufragare la nostra. Anche se cerchiamo di porre continuamente nel nostro servizio a sua disposizione la nostra fede, continuiamo ad essere in qualche modo insicuri – all’interno della nostra missione e del nostro lavoro limitato – se quanto facciamo corrisponde realmente al compito affidatoci. Il disagio dei discepoli racchiude anche questo: che il loro desiderio è stato soddisfatto in una maniera com¬pletamente diversa da quanto essi credevano; in una maniera che ha come ignorato la loro aspirazione e non ha tenuto conto della sua spe¬cificità; in una maniera che appartiene completamente e unicamente al Signore e non ad essi; in una maniera che non chiude l’apertura del loro desiderio, ma piuttosto la spalanca e la dilata. La notte, il vento e il mare agitato attorno a loro si trasformano ora improvvisamente nella notte, nel vento e nel mare agitato all’interno del loro cuore, e questi sfociano a loro volta nella notte, nel vento e nel mare agitato del cuore del Signore. Nel corso della propria notte uno sospira a lui, ma quando egli compare si ha quasi la sensazione che si era più al sicuro nella propria che non nella grande notte del Signore, che ci sovrasta. In noi alberga un desiderio, che in fondo in fondo non vuol essere ap¬pagato, perché la chiarezza sospirata è più insopportabile dell’attesa con¬fusa. Così esistono cristiani, i quali nel mezzo delle buone opere che compiono sentono con inquietudine che la loro vita non corrisponde pienamente alla volontà di Dio e aspirano a una vocazione più alta; ma quando questa risuona, si spaventano ancor di più, perché in fondo non l’hanno realmente attesa e ritenuta possibile. Oppure c’è la preghiera, che viene iniziata in mezzo all’inquietudine umana e che sfocia nella notte e nella presenza esplosiva di Dio; la meditazione limitata che si trasforma nella visione inattesa ed eccessiva. Avviene sempre che un piccolo vuoto viene colmato nel seno di un vuoto più grande, di modo che nella paura ci troviamo meglio con il nostro desiderio piccolo e poco chiaro che non con l’inquietudine nuova, più alta ed esplosiva, che si presenta come appagamento. È il lato oscuro di quel mistero del so¬vrappiù e dei rimanenti dodici canestri.
6,20. Ma egli disse loro: «Sono io, non temete».
Con queste parole: Sono io, Gesù descrive esattamente chi egli è. Sulle sue labbra tali parole significano: Io sono il Figlio di Dio, il vostro Signore. Per gli interpellati non si tratta di parole limitate, di una verità parziale. In esse i discepoli debbono accogliere tutta la verità e in loro virtù spingersi attraverso tutto – anche attraverso il Figlio quale unica via – fino alla verità eterna del Padre. Le parole monosillabiche del Si¬gnore debbono loro bastare: in esse non è contenuta tutta la verità de¬gna di essere conosciuta.
Non temete. Hanno paura, ed egli dice loro: non abbiate paura, Con poche parole egli lascia perfettamente capire chi egli è, sempre con poche parole mostra di capire perfettamente chi sono: coloro che hanno paura davanti a lui, coloro la cui paura aumenta con la sua comparsa. E invece essi non debbono avere alcuna paura davanti a lui, non del fatto di esser lasciati soli e neppure della solitudine ancor più profonda della sua compagnia, non dei suoi miracoli e neppure del suo essere straordinario. Se il Padre gli ha affidato la responsabilità degli uo¬mini, essi debbono sapere ch’egli porta tale responsabilità come uno che è in grado di farvi fronte. Di conseguenza non debbono aver paura di essere in suo potere. Egli si assume anche la responsabilità delle richieste che dovrà avanzare loro, per quanto fonte di paura esse siano, perché pretendono troppo dall’uomo, lo sottraggono a se stesso e con tale lace¬razione lo consegnano al Signore. Egli si assume la responsabilità di questa divisione operata in loro, che li priva di ogni sentimento della propria sicurezza. Egli conosce questo strappo dalla vita abituale e que¬sto venir immersi in una vita sconosciuta che si dilata sempre più. Co¬nosce tutto questo, perché ogni realtà umana trova in lui la sua realiz¬zazione, ma soprattutto perché le richieste avanzate a lui dal Padre cre¬scono semplicemente a dismisura. Perciò dice loro: Non temete, perché pure lui conosce la paura. Non debbono temere, perché lui li aiuterà a portare l’angoscia umana. E non debbono temere, anche se lui li invi¬terà a condividere la sua propria angoscia divina. Diminuirà la loro paura umana, ma susciterà e accrescerà in loro la sua paura divina. La sua partecipazione tranquillizzante alla loro paura produrrà in essi una spe¬cie di trasformazione: nel condividere la loro paura limitata, impianterà in essi l’amore per il sempre più grande e darà quindi loro la possibilità di partecipare alla sua paura illimitata e assoluta. Egli mitigherà nello spazio finito la loro piccola paura, ma farà loro sentire al suo posto l’infinità del proprio spazio e in esso la sua grande paura. In questo scambio offre loro il meglio: qui essi possono perdere il loro egoismo e divenire accessibili al suo amore. Quanto egli offre loro è naturalmente la cosa che più li spaventa: essere immessi nella sua esigenza e nella sua soffe¬renza divina divorante. Egli allevierà il loro piccolo peso umano, per dar loro da portare in cambio con amore qualcosa della sua croce infinita.
6,21. Allora vollero prenderlo sulla barca e rapidamente la barca toccò la riva alla quale erano diretti.
È appena risuonata una parola del Signore, che ha creato tra lui e i discepoli una comunione profonda e intimissima: Sono io. Una porta si è dischiusa fin nel più intimo della divinità. Ed ecco il racconto pro¬cedere subito oltre. Potrebbe sembrare che la porta venga di nuovo al¬trettanto rapidamente chiusa, come se la parola appena risuonata si in¬terrompesse senza essere stata utilizzata e gustata sino in fondo. Ma av¬viene sempre così coi discorsi e le azioni del Signore. Niente di quanto egli dice e fa presenta una conclusione visibile; tutto è piuttosto sempre e solo un inizio orientato a Dio. Lui stesso è infatti la Parola che è in principio e che, proprio nel mentre tutto promette, dischiude e lascia aperto, è il compimento di tutto. Il racconto prosegue non perché la parola del Signore ha trovato la sua conclusione, ma, al contrario, perché essa continua a risuonare infinitamente e sfocia nel racconto e in tutto quanto segue.
I discepoli vorrebbero ora prendere questa parola infinita «Sono io» nella loro barca. Pensano che con questo incontro, con cui il Signore si rivela loro e mette fine alla loro paura umana, l’avventura abbia trovato la sua conclusione. Si aspettano l’epilogo e il felice finale. Si immaginano che la seconda metà del loro viaggio (dato che erano giunti solo a metà del lago) sarebbe stato un tranquillo postludio. Invece proprio ora che si sentono più al sicuro tutto viene ancora una volta capovolto. Credono di poter prendere il Signore nella loro barca, ma il Signore, che non si lascia mai prendere, li ha già ricevuti a riva, e lì ove essi ritenevano di essere nel più profondo abbandono, lì in realtà essi sono già giunti alla meta. Perché la paura del Signore redime. Però essa lo fa in modo tale che nulla in essa è più controllabile. I discepoli pensavano di conoscere il tragitto e di poter misurare le distanze. Ma dove compare il Signore, ogni distanza diventa relativa, la metà può essere il tutto e il tutto la metà.
Tratto da Adrienne von Speyer, S. Giovanni. Esposizione contemplativa del suo vangelo, vol II (I discorsi polemici. Riflessione sui capitoli 6-12 del vangelo di S. Giovanni), Milano 1989 (ed. Jaka Book), pagg. 27-31 – ed . or. Einsiedeln 1949.
Sono io. Significa “Non mi riconoscete?” Il Signore si fa riconoscere. Noi non abbiamo un Signore lontano, ma vicino. Vicino anche quando è lontano perchè il buio, la tempesta, il mare agitato non possono nulla contro di Lui. Potente nell’assenza, ma fragile nella presenza perchè si fa riconoscere e ci incontra nella fragilità. Insomma mi sembra diverso dire Io sono dal dire Sono io. Diverso nel senso che la seconda frase sviluppa la prima.