BOLOGNA – In questo grave momento per le sorti del nostro paese, per la mia adesione alla Regola di don Giuseppe Dossetti, che fu giurista e padre costituente, ritengo che non si possa dimenticare che egli spese le ultime energie della sua vita per la difesa della Costituzione, fondamento di unità e di giustizia di tutto il nostro popolo. È quindi per me doveroso lasciarci guidare dal suo insegnamento.
Egli fortemente combatté la riforma berlusconiana e per mostrare quanto la sua posizione di allora sia del tutto attuale e applicabile alla riforma di oggi basta rileggere alcune sue affermazioni.
1. Senza ombra di dubbio Dossetti avrebbe combattuto questa riforma prima di tutto perché operazione illegittima e pericolosa: un parlamento eletto con legge dichiarata incostituzionale che si arroga il compito di cambiare un’ampia parte della Costituzione (47 articoli, pari a 1/3 della Costituzione) con stretta maggioranza politica.
In occasione della festa della liberazione del 1994 così scriveva al sindaco di Bologna:
Si tratta di impedire a una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo, di mutare la nostra Costituzione: si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un autentico colpo di stato (Bazzano, 25 aprile 1994)
2. In secondo luogo perché ne risulterebbe una Costituzione di parte. I padri costituenti parlavano di “Casa comune”. La costituzione del ‘48 fu scritta insieme e fu votata a larghissima maggioranza, 88%, da quanti erano avversari politici. La riforma di oggi invece divide gli italiani: se prevalesse il sì, metà degli italiani non si riconoscerebbero nel nuovo testo della Costituzione.
Ricordando i lavori dell’Assemblea Costituente Dossetti osservava:
È qui il luogo di ricordare che questa base di largo consenso – nonostante i dibattiti assai vivaci lungo il corso di tutti i lavori e gli antagonismi che dividevano allora il paese – portò a una votazione finale del testo della Costituzione che raggiunse quasi il 90% dei componenti dell’Assemblea costituente (Le radici della Costituzione, Monteveglio 16 settembre 1994).
3. Infine non si tratta di discutere se c’è qualcosa di buono nel progetto di riforma ma di difendersi dalla manipolazione del consenso.
Esprimendo la sua preoccupazione, Dossetti diceva: Ora la mia preoccupazione fondamentale è che si addivenga a referendum, abilmente manipolati, con più proposte congiunte, alcune accettabili e altre del tutto inaccettabili, e che la gente totalmente impreparata e per giunta ingannata dai media, non possa saper distinguere e finisca col dare un voto favorevole complessivo sull’onda del consenso indiscriminato a un grande seduttore: il che appunto trasformerebbe un mezzo di cosiddetta democrazia diretta in un mezzo emotivo e irresponsabile di plebiscito (Lettera ai Comitati per la difesa della Costituzione, Oliveto 23 maggio 1994).
Giovanni Nicolini
Come non essere d’accordo con queste persone (don Giovanni e don Giuseppe)che hanno testimoniato con la loro esistenza, la loro cultura e la loro fede di saper guardare con onestà e lealtà alle persone e alla “Storia”, rinunciando a privilegi e onori per scegliere come unica bussola la Parola. In questi giorni, e nei prossimi ancora di più, vedremo strumentalizzare il tema del Referendum, così come simmetricamente avviene per quello dei migranti, lavorando sulle “viscere” e sulle appartenenze anziché ragionando del “merito”.
Mi ritrovo totalmente interpretato da ciò che don Giovanni Nicolini, facendo proprie le considerazioni di don Dossetti, ci ripropone.
Grazie don Giovanni.
Grazie don Giuseppe.
Grazie!
Mi spiace, invece, di esprimere il mio totale disaccordo con quanto scritto da Giovanni, come per altro gli ho già comunicato personalmente. La democrazia DEVE rispettare anche “la gente totalmente impreparata e per giunta ingannata dai media, non possa saper distinguere e finisca col dare un voto favorevole complessivo sull’onda del consenso indiscriminato a un grande seduttore:”. Io sono preparato, non credo proprio di essere succube dei media e non credo che in democrazia ci siano i salvatori i reprobi ed il popolo bue. Citare fuori contesto e in altra epoca le parole di Don Giuseppe mi pare inappropriato e crudele. Se si hanno argomentazioni intelligenti, personali, che si usino. Lasciamo in pace il Vecchio. Questi giovani democratici che formano il Governo attuale (una tristezza davvero confrontarli coi Governi Berlusconi, all’inizio appoggiati dalla nostra chiesa) stanno cercando di adattare le funzioni proprie di una moderna democrazia a questi tempi, che possono non piacere ma con i quali, chi governa, DEVE confrontarsi.
Il fatto che in questa sede e queste persone non sappiano distinguere e inducano a divisioni radicali tra di noi è un vero scandalo. Ne sono molto rattristato.
Condivido quanto ha scritto il signor Cilloni. Aggiungo che dire che la riforma tocca 47 articolo è affermazione aritmeticamente vera, ma sostanzialmente capziosa: infatti se si tolgono competenze al Senato, è evidente che la parola “Senato” dovrà essere eliminata in tutti gli articoli che riguardano quelle competenze; ma la vera modifica è una sola. Così, per esempio, se Tizio muore è evidente che il suo nome sarà cancellato di molti elenchi (anagrafe, elenco telefonico, condominio, associazioni di cui è socio): ma Tizio muore una volta sola, non tante volte quanti sono gli elenchi da cui viene cancellato. Il fatto che il Parlamento che ha votato la riforma risulti eletto in base ad una legge elettorale dichiarata costituzionalmente illegittima non invalida la riforma: il Parlamento è validamente in carica fino a che il Presidente della Repubblica non lo scioglie; e né Napolitano né Mattarella lo hanno sciolto, anzi lo hanno lasciato operare senza particolari obiezioni di nessuno: così è passata la legge Cirinnà senza che nessun eccepisse l’illegittimità del Parlamento. Capisco la diffidenza di Dossetti ( e di Nicolini) per i referendum: nei referendum c’è infatti il rischio che la gente, la gente comune, esprima la propria vera opinione (giusta o sbagliata che sia ) e non quella che gli “illuminati”, i “colti” vorrebbero fargli esprimere. Sono i rischi della democrazia. Marco Zanini
Partecipo volentieri a questo dibattito, facendo anch’io qualche osservazione da “comune cittadino”.
Necessità di un largo consenso, di una grande maggioranza, per modificare la Costituzione: i tentativi più recenti fatti in proposito non hanno dato nessun risultato. Si pensi alla “bicamerale” di D’Alema e Berlusconi, o alla attuale riforma: è stata promossa dal presidente del consiglio con il consenso di Forza Italia e altri, … finché Forza Italia e gli altri si sono tirati indietro. Aspettare di avere una larga maggioranza, allora, vuol dire rimandare alle calende greche! Da più di vent’anni tutti si dicono d’accordo sul porre fine al “bicameralismo perfetto”, sulla riduzione del numero dei parlamentari e sulla riduzione dei costi della politica: perché adesso tanti si tirano indietro?
Si afferma che la riforma proposta favorirebbe una “deriva autoritaria”. In realtà, da quel che ho capito, i poteri del capo del governo non vengono aumentati nei nuovi articoli; il rischio verrebbe piuttosto dalla legge elettorale, la cosiddetta Italicum, a causa della esagerata maggioranza che consentirebbe al vincitore delle elezioni. Renzi e il Partito Democratico, però, riconoscendo questo rischio, sono ora disponibili a modificare la legge elettorale e si stanno già formulando proposte in merito.
Riguardo all’ultimo punto, il pericolo di un “consenso indiscriminato a un grande seduttore”, mi viene da fare questa osservazione: il “consenso di massa” al presidente Renzi mi pare non ci sia più; tale consenso si è ridotto notevolmente rispetto al tempo degli inizi. Vedrei quasi il rischio contrario: tutti si sono coalizzati contro Renzi non tanto per “amore della Costituzione”, quanto per farlo cadere e liberarsi di lui.
Sono disponibile a rivedere questi miei pensieri… e intanto saluto tutti – soprattutto Giovanni – con affetto.
mi sembra inesatto utilizzare per la situazione odierna le parole di Dossetti del 1994-1996. All’epoca l’attaco alla Costituzione era radicale: si negavano i fondamenti del patto costituzionale, si inseguivano manie presidenzialistiche e pseudofederalistiche che minavano l’unità nazionale (S.Mengotto, Giuseppe Dossetti: l’ultima battaglia. Breve storia dei «Comitati per la Costituzione» 1994-1996, Il margine, 2, pp. 8-22, 2002). Era un periodo in cui si affermava un forte revisionismo che mirava a negare le radici della Costituzione nella negazione del Fascismo, a farne un puro accordo di potere tra forze politiche. Contro questo Dossetti si muove, ed insieme a lui prendono posizione storici cattolici come Pietro Scoppola (“25 aprile, Liberazione”, “La Costituzione contesa”).
Eppure, “la posizione di Dossetti su questi temi è complessa, perchè più che a una difesa totale della Carta così come esisteva, Dossetti, che ne aveva in molte occasioni più volte criticato le debolezze specie nella seconda parte, reagì alla pretesa di ripensare la fondazione dei valori costituzionali cancellandone la precisa radice storica” (P. Pombeni, La questione costituzionale in Italia, Il Mulino, 2015).
Quale fosse il pensiero di Dossetti sulle modifiche da fare alla seconda parte della Costituzione, è possibile comprenderlo dalle sue stesse parole.
“Ad ogni modo, in questo grande quadro di problemi e di attenzioni prevalenti, non potrei che ribadire ora idee già espresse, non di pura e difesa integrale della Costituzione vigente, ma di difesa critica e dinamica. Sempre ferma l’osservanza esatta e leale dell’articolo 138 sulla procedura di revisione, confermo la mia adesione a un ragionevole federalismo, purché garantito da una coscienza più motivata e più matura dell’unità nazionale. Così confermo il mio favore per una riforma profonda del bicameralismo che riservi alla Camera dei deputati il ruolo proprio della espressione politica del Paese e faccia della seconda Camera una Camera ineguale delle regioni e dei corpi intermedi. Ancora confermo il mio favore verso un rafforzamento molto robusto della figura del primo ministro e una stabilizzazione più accentuata dell’esecutivo. E in genere un mantenimento della distinzione, della pluralità, e della diffusione e dell’equilibrio tra centri del potere politico – evidentemente il potere giudiziario anzitutto – e anche i poteri di garanzia.” (G. Dossetti, Il fantasma del presidenzialismo e le maschere tragiche della crisi [lettera al Convegno promosso dal Coordinamento Nazionale dei Comitati per la Costituzione, 2 febbraio 1996], Il margine, 1, pp.3-5, 1996)
“Caro Vitali, ho ricevuto dal prof. Allegretti dell’Università di Firenze l’accluso testo, che è la sua relazione di apertura alla riunione dei Comitati di Firenze del 15.2.1996. … Poiché il testo è molto valido, a parer mio, e mi pare che riassuma in modo denso ed efficace tutta la questione delle riforme, al punto in cui è giunta in questo momento nel dibattito nazionale, sarei del tutto d’accordo e quindi oso fare mia la proposta del prof. Allegretti. … Ho detto che il testo di Allegretti mi sembra molto valido. È denso, sintetico, completo, anche se può apparire un po’ difficilino ad una prima lettura. Non trascura nessun problema: li tratta esaurientemente tutti, dal federalismo alla forma di governo, alle riforme dell’amministrazione, alle garanzie dovute alle minoranze e al doveroso inquadramento di tutti i problemi nell’attuale evoluzione europea e internazionale. Ma soprattutto mi pare che mostri in ogni sua parte e in ogni argomento un’armonia molto equilibrata tra ciò che deve essere conservato e ciò che può essere riformato. È molto chiaro sull’ispirazione di fondo ed è esplicito sulla urgenza di certe riforme, come l’autonomia federale, la trasformazione del Senato in Camera delle Regioni, il rafforzamento del Primo Ministro e dell’Esecutivo, la limitazione della legislazione inflazionata ecc. Ma d’altra parte è molto chiaro sulle concessioni che non si possono fare al novismo, al baratto, alla sconsideratezza superficiale. Prende posizione decisa per il cancellierato di tipo tedesco e non per qualunque forma di presidenzialismo, specialmente di tipo francese sia pure attenuato.” (G. Dossetti, lettera inviata a Walter Vitali, Presidente del Coordinamento Nazionale dei Comitati per la Costituzione, 28 febbraio 1996, Il margine, 2, pp.9-10, 1996)
Nel documento di Allegretti, fatto proprio da Dossetti, si afferma “Con la stessa maturità richiesta per sostenere la necessità e possibilità di difesa dell’impianto costituzionale e dei suoi principi e norme costitutive, bisogna saper prendere atto che, in qualche caso per difetti delle formulazioni originarie, più spesso per il cambiamento delle situazioni e delle esigenze, la Costituzione presenta oggi, in più d’un aspetto, insufficienze e deficienze, che vanno affrontate con modifiche ed integrazioni mirate. Si tratta, in alcuni casi, di aspetti particolari e circoscritti, in altri di vaste parti rivelatesi poco funzionali (penso soprattutto ai rapporti centro-periferia e al bicameralismo), ancora in altri soltanto di lacune presenti nel dettato esplicito del testo costituzionale sebbene colmabili, di per sé, con un’adeguata interpretazione. In tutte le ipotesi, ma evidentemente specialmente nella seconda ed anche nella prima (se si conviene sulla loro identificazione) sarebbe vera e propria stoltezza continuare a rimandare l’adozione delle modifiche necessarie. La conoscenza della storia italiana (del periodo monarchico-liberale come di quello repubblicano) convince che uno dei difetti del nostro paese è stato di non emendare a tempo debito certe disposizioni costituzionali. L’effetto è o può essere grave: poiché i principi e i valori più alti vivono nella loro traduzione in atto, privarli degli strumenti di attuazione necessari può portare al loro discredito e, quindi, alla loro messa in questione fino all’abbandono. Insomma, non modificare al momento giusto una costituzione dove ne ha bisogno può rischiare di metterne a repentaglio l’esistenza stessa. A questo rischio si è forse oggi vicini, dopo che troppo a lungo certe esigenze di modifica sono state affacciate e diffuse mentre nessuna seria revisione è stata adottata, per cui un atteggiamento di difesa indiscriminata o di incapacità a proporre e portare ad approvazione le leggi di revisione più indispensabili sarebbe oggi fonte di gravi pericoli e comunque perpetuerebbe la difficoltà di affrontare i problemi aperti. … Ma, più importante che una compiuta rassegna delle riforme necessarie o soltanto utili, è la indicazione di alcune precise priorità, atte a sboccare nella riforma di quegli aspetti della Costituzione che veramente, se risolti correttamente, modificherebbero profondamente la forma di governo senza alterarne i connotati essenziali. Tali priorità dovrebbero coinvolgere da un lato la riforma dei rapporti centro-periferia, dall’altro – ma ci sono importanti connessioni con il primo problema – la relazione tra gli organi italiani e le Comunità europee.
I rapporti centro-periferia sono terreno dell’insufficienza forse più vistosa del quadro costituzionale, per lo meno nel tipo di applicazione costante che essi hanno subito ma che si può considerare ormai facente corpo con il tenore stesso delle disposizioni (perciò non rimediabile in via ordinaria con rettifiche dell’applicazione). Il sistema regionale e locale, per una quantità di motivi e di fattori tante volte analizzati, ha dato luogo a tali restrizioni dell’autonomia, a tale confusione di poteri fra stato, regioni, comuni e province, a tali difetti di funzionalità, che può a buon diritto essere visto come una delle cause che hanno, se non determinato almeno reso possibili, minacce insensate di attentato all’unità nazionale, nella forma o di rottura della solidarietà interregionale che dovrebbe essere praticata con l’incremento eccessivo dell’autonomia (soprattutto nel campo finanziario: proposte di lasciare alle regioni gran parte delle entrate in esse percepite) o addirittura di ipotesi di secessione delle regioni privilegiate economicamente.
Sembra pertanto strettamente necessario ampliare e potenziare, sia in campo legislativo che amministrativo, le competenze delle regioni e razionalizzare e potenziare quelle degli altri enti locali. Ciò varrebbe anche come contributo a trovare un avviamento alla soluzione della questione meridionale, reiteratamente fallito finché affrontato con l’intervento dal centro (Cassa del mezzogiorno ecc.), ricorrendo alla responsabile autonomia delle popolazioni del Sud. Per raggiungere questo scopo, pare assolutamente necessario che le regioni siano in pari tempo chiamate a collaborare alle decisioni centrali, nella forma già collaudata negli stati federali (ma anche avviata in stati regionali come la Spagna), mediante la formazione di un “senato delle regioni”. La conformazione e le funzioni di una camera di questo tipo sarebbero da studiare attentamente, per esempio assicurando l’elezione dei membri del senato da parte sia dei consigli che dalle giunte regionali e associando in grado diverso la seconda camera alle funzioni parlamentari secondo che si tratti delle leggi riguardanti il sistema locale, le relazioni internazionali e il bilancio o, invece, delle altre leggi.
Questo tipo di riforma non darebbe solo un contributo decisivo a vantaggio delle autonomie, ma al tempo stesso fornirebbe l’apporto più efficace al mantenimento dell’unità nazionale, perché soddisfacendo le giuste aspirazioni di autogoverno e associando le regioni alla guida dello stato, sarebbe conquistato il senso di responsabilità delle popolazioni di tutto il paese nelle scelte generali e così neutralizzate le volontà di secessione. Inoltre, con un’unica riforma, sarebbe al tempo stesso risolta in senso positivo la crisi del bicameralismo indifferenziato tipico dell’Italia. E farebbe così un passo avanti la riforma della funzionalità del parlamento, a cui verrebbe finalmente recuperato, come da tanto tempo auspicato, il compito di adottare le grandi leggi, mentre sarebbe privato della possibilità stessa si adottare “leggine” di settore.” (U. Allegretti, La Costituzione messa in questione: fedeltà e adeguamento, Il margine, 2, pp.11-20, 1996)
Condivido con don Giovanni la nostalgia per la parola di Dossetti, ma quella parola (sempre misurata alla Parola) non ammette semplificazioni. Non strumentalizziamola e lasciamo che interroghi e illumini ciascuno di noi.
Dai testi di Dossetti del 25 aprile e del 23 maggio 1994, citati da don Nicolini, emerge che don Giuseppe riteneva non ammissibile – sul piano morale e politico – alcun referendum costituzionale. Questa posizione radicalmente critica verso l’istituto referendario stesso, quando applicato alla Costituzione, è interessante e coglie, con la solita lunghezza di sguardo, il pericolo portato alla democrazia dalle manipolazioni mediatiche. Tuttavia, si deve prendere atto che il referendum per confermare una riforma costituzionale è previsto dalla Costituzione del 1947 (art. 138) e che a questa modalità costituzionale si è rigorosamente attenuto il percorso della riforma Boschi-Renzi. Oggi, a me pare difficile contrastare una riforma costituzionale per il fatto di essersi attenuta all’unico metodo di riforma previsto dalla Costituzione stessa. E ancor più mi pare assurdo far discendere dalle acute osservazioni di Dossetti sulla “democrazia diretta” la conseguenza che si debba votare No al referendum che ormai abbiamo davanti. Il rischio di essere manipolati dai media ce l’abbiamo addosso, lo dobbiamo affrontare come possiamo, e non ce ne liberiamo né votando in un modo né nell’altro.
Inoltre, Dossetti, mentre bocciava alla radice il referendum costituzionale, proponeva un’alternativa per giungere alle riforme che egli stesso sentiva necessarie: l’elezione di una nuova Assemblea costituente. Può darsi che nel 1994 questa soluzione avesse qualche possibilità di realizzarsi, ma oggi essa pare del tutto impercorribile. Ma allora, se si esclude a priori il mezzo del referendum e se si conviene che la convocazione di una Assemblea costituente è fuori dalla realtà storica attuale, la conseguenza è che non è più possibile alcuna riforma costituzionale. Avremmo così teorizzato l’immobilizzazione permanente della Costituzione. Non era certo questa l’idea di don Dossetti, ma è la posizione a cui si arriva riproponendo alla lettera le sue tesi 22 anni dopo.
Senza entrare nel merito del Si e del No, io voterò No perché non posso accettare che a cambiare la nostra Costituzione siano persone che invece di essere al Governo dovrebbero essere in carcere. Non è sufficiente come motivazione?