18 Ora i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: “Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?”. 19 Gesù disse loro: “Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. 20 Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno. 21 Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. 22 E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi”.
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Oggi possiamo meglio renderci conto che con il cap.2 Marco ci ha portato dentro alla grande “festa” della salvezza e al volto nuovo della comunità che si raccoglie intorno a Gesù. La chiamata di un peccatore a far parte della comunità dei discepoli (addirittura del gruppo dei Dodici se Levi è Matteo!) e il grande banchetto dove Gesù mangia e beve con i pubblicani e i peccatori ora si esplicitano con la domanda che viene rivolta al Signore e che gli consente di proclamare la novità assoluta del tempo che ormai si vive per la sua presenza tra noi.
Ricordo brevemente con voi il significato del digiuno secondo la fede e la pietà dei padri ebrei. Siamo lontani dalla tesi “spiritualista” del digiuno delle spiritualità orientali, alla quale anche noi istintivamente facciamo riferimento. Per un orientale, il digiuno è una via di elevazione, di distacco dalla materialità e di ascesa verso lo spirituale. Per un ebreo no: per un ebreo il digiuno è una “provocazione” verso Dio, per mostrargli – oltre che per ricordare noi stessi – quanto siamo piccoli e poveri, e quanto siamo incapaci ed esposti alla morte se Lui non ci soccorre; dunque il digiuno non per salire noi, ma per chiedere a Lui di scendere verso noi! Ecco allora il senso profondo del digiuno dei discepoli di Giovanni e dei Farisei: una tensione e un’invocazione fortemente “messianica”, per sollecitare la venuta del Messia. Il digiuno quindi come il proprio di chi nel modo più forte e profondo vive e celebra la fede di Israele. Ma proprio per questo i discepoli di Gesù non digiunano! Il Messia, lo Sposo, è tra noi.
Ed ecco ora l’attribuzione ai discepoli, cioè a noi, di un nome nuovo:”gli invitati a nozze” dice la versione italiana; ma più radicalmente e luminosamente dice il testo:”i figli delle nozze”! Dove la qualificazione di “figli” dice una derivazione-generazione-dipendenza totale dall’evento generante. In questo senso i discepoli sono “figli delle nozze”, perchè l’evento della venuta del Figlio di Dio e della sua presenza tra noi come Sposo dell’umanità nuova, fa di questa umanità “i figli delle nozze”. Questa condizione sponsale definisce radicalmente la nostra fisionomia profonda. Per questo, il tempo in cui viviamo, tempo appunto delle nozze, non è solo tempo in cui non si digiuna, ma tempo in cui “non si può” digiunare. Bisogna far festa. L’atteso nei secoli è ora tra noi. La lunga preparazione è finita. Il dono è presente in tutta la sua pienezza.
Digiuneremo oramai solo quando ci sarà tolto. Ma ci può essere tolto? Certamente nel corso del tempo liturgico celebreremo la sua Passione e Morte, e allora digiuneremo per celebrare il dolore mortale di un’umanità privata di Lui, per poter celebrare con gioia più consapevole e profonda la sua Risurrezione. Ma forse non solo questo. Forse il digiuno celebra anche l’atteggiamento del peccatore che grida la sua lontananza dal suo Signore, il suo bisogno-desiderio di essere cercato e accolto. La sua speranza di ritornare. Dunque tutto quello che celebra il dolore e il pianto per lo smarrimento dell’irrinunciabile dono di Dio, e cioè il suo Figlio in mezzo a noi e con noi.
Dunque un volto assolutamente nuovo del digiuno, che mette in evidenza il mutamento radicale del tempo: non certo più un tempo di mancanza nell’attesa, ma un tempo di penitenza per la privazione del bene irrinunciabile. Non si può tornare indietro. Tutto deve corrispondere e tutto deve celebrare questo tempo nuovo delle nozze e della festa. Tale l’esempio del panno e del vino. Se si mischia vecchio e nuovo si fa un danno grave, perchè si perde sia il vecchio che il nuovo. Con delicatezza e affetto, è necessario continuamente purificare e riformare la nostra vita personale e la vita della comunità credente, tutto orientando verso la fedele celebrazione del dono divino, liberandoci da inutili e pericolose sovrastrutture.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Dunque, siamo “i figli delle nozze”: è il tempo della festa e della gioia. – Volendo approfondire ulteriormente la strana espressione del testo originale, esso dice alla lettera: “i figli del baldacchino o della camera nuziale”. Si tratta di quegli amici dello sposo che facevano da testimoni alla “regolarità” del primo rapporto tra gli sposi e che poi avevano il compito di animare la festa, tanto che erano esonerati – per quei giorni – dall’osservanza di ogni precetto religioso. L’accostamento, quindi, indica il rapporto di intimità totale tra questi amici e lo sposo, tra noi e il Signore, e nello stesso tempo ci fa immergere in un clima di grande allegrezza per la venuta e le nozze delo Sposo. Le ultime immagini ci suggeriscono di non cedere all’irresolutezza e al compromesso: non restiamo attaccati a ciò che, pur dandoci sicurezza (le opere buone, le pratiche religiose…), ci impedisce di entrare nell’allegrezza del Regno.
Questo brano lega strettamente due aspetti del regno di Dio vicino, presente in mezzo a noi: la gioia e la novità. Un comandamento nuovo, una dottrina nuova, la nuova alleanza. A noi è richiesto soltanto, ogni giorno, di essere aperti a cogliere questa novità. A non fare aggiustamenti, in apparenza comodi, ma in realtà distruttivi.