1 «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3 Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4 Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6 Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
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L’immagine della vite e dei tralci è caratteristica del vangelo secondo Giovanni. Ripresa dall’antica immagine di Isaia 5, anche se profondamente modificata, diversa dall’immagine che gli altri Vangeli colgono nella vite-vigna, mi sembra che ci doni non solo la realtà della comunione con il Signore, ma anche il principio etico più profondo, quello cioè più capace di rispondere alla domanda circa il nostro “che fare”. Che cosa devo-dobbiamo fare? Ogni risposta è contenuta nel “dovere” fondamentale, espresso dal verbo “rimanere”. Ben sette volte il verbo ritorna nel nostro brano. Di per sè il “rimanere” parrebbe consegnarci ad una realtà statica, parrebbe contenere l’indicazione di un conservatorismo rigido. Una tentazione irresistibile per le “religioni”, cui anche il cristianesimo nella sua storia e nel suo istintivo porsi nella vicenda umana spesso cede. In realtà è vero l’opposto! Il “rimanete in me” chiesto da Gesù è la severa condizione per procedere incessantemente nel cammino della fede. E’ esperienza di tutti che, da soli, ci si agita molto, ma certamente non si cammina. E’ proprio del discepolo, “seguire” il maestro. Il “rimanere in Lui”esprime un’adesione profonda all’incessante movimento dello Spirito di Dio. Questa è l’esperienza quotidiana del nostro rapporto – sempre troppo debole e superficiale! – con la Parola di Dio.
Sin dal ver.2 viene posto l’elemento privilegiato che l’immagine della vita fa emergere, e cioè il tema del “frutto”. Solo la comunione con il Maestro e il Signore genera frutto. Il frutto non è propriamente azione nostra, opera nostra, ma appunto frutto dell’azione fondamentale che ci è chiesta, cioè il “rimanere” profondo e vivo in Lui. “Senza di me non potete far nulla” afferma con severità il ver.5, proprio come suggerisce l’immagine: “..il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite”(ver.4). Tutto questo mi fa ricordare l’impostazione che Sofia Cavalletti dava al catechismo che offriva ai bambini della vecchia Roma: l’immagine della vite e dei tralci era la fonte per cogliere il mistero della nostra vita di comunione con il mistero e la Persona di Gesù.
Il segreto di quest’immagine è che riesce nel contempo ad affermare che tutto viene da Dio, e a sollecitare da noi la massima partecipazione all’opera divina. Nel “rimanere” dei tralci nella vite sta tutto il nostro “sì” nuziale incessantemente confermato. Il ver.8 esalta il portar frutto con quel “diventiate miei discepoli”, che esprime tutto il dinamismo interiore e l’incessante progredire della vita cristiana.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
v. 1 “Io sono la vera vite, e il Padre mio è l’agricoltore”. La vigna è, nei testi dei profeti (p.es Is 5:1; Ger 2:2), il simbolo del popolo dell’alleanza. Ma queste parole riportano ancora più indietro, agli alberi piantati da Dio nel giardino: l’albero della vita il cui frutto poteva essere mangiato, e l’altro, vietato. Adamo mangiò quello vietato e subì il castigo e la morte. “E piantò il Signore un giardino in Eden… fece germogliare ogni tipo di alberi” (Gen 2:8.9): Dio è l’agricoltore. E la vite vera è il vero albero della vita, prefigurato da quello piantato da Dio nel giardino. “Io sono la vite e voi i tralci!”: L’uomo, discepolo di Gesù, non è più “esterno” all’albero della vita, ma è intimo a lui. Se si separa, allora subisce la sorte di Adamo: viene “cacciato fuori” (v. 6 e Gen 3:24). ,Ma forse c’è di più: ora i discepoli, essendo i tralci, portano frutti (altrimenti vengono tagliati via), e questi frutti sono frutti che dapprima rallegrano l’agricoltore: “L’agricoltore che si affatica deve essere il primo a coliere i frutti della terra”, diceva il brano letto oggi di 2Tim (2:1-7). E in questo lo glorificano: “In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto…” (v.8). E poi sono frutti di vita, che secondo l’immagine di Ap 22:2, servono a nutrire e guarire le nazioni. Per questo che i discepoli siano uniti a Cristo è un anche per il mondo intero. quale è il significato di questa potatura, indicata qui come necessaria per portare più frutto? E’ una azione che avviene per azione della parola annunciata, che pota e purifica. Non è un togliere via qualcosa, ma una azione che la prola fa in noi se viene ascoltata con cuore docile. “In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e siate miei discepoli”. La parole, fonte di potatura, diventa il modo attraverso cui diventiamo e siamo discepoli di Gesù. Il fine della potatura è rafforzare l’unità del tralcio con la pianta. In questo senso i frutti sono anche frutti di intimità, per il bene e la gloria degli stessi tralci. Si può sottolineare anche un parallelo con il cap. 12: “Il chicco di grano caduto in terra se non muore, resta solo; se invece muore4 porta molto frutto!”. Oggi Gesù riferisce ai discepoli, quello che là diceva di sè, preannunciando la sua passione e morte. E come anche per Lui ha sentito la possibilità negativa di rimanere solo, e al contrario quella positiva di portare frutto morendo; per i tralci vale la stessa cosa. Il Signore vuole allontanare dai discepoli questa eventualità negativa di rimanere soli, tralci solitari che non portano frutto. Invece, rimanendo nella vite si porta frutto; nella partecipazione a quello che è il modo del Signore di portare frutto, nella comunione con Lui fino alla morte. L’essere “cacciato fuori” è cosa sola con il non rimanere in Gesù. Non sembra essere un “castigo” successivo, ma propriamente uno stato coincidente alla decisione di togliersi via da Gesù. Questo avviene allontanandoci dalla fede in Lui e dalla comunione con Lui, senza il quale “non possiamo fare nulla”, supponiamo di potere seguire una strada per cui “il discepolo è più grande del suo maestro, e il servo più grande del suo signore”, e non accettando di essere uniti alla via di piccolezza che il Signore ha scelto per sè e per noi.
Continuando la riflessione dei fratelli di Mapanda sulla potatura, sottolineo che va corretta un’immagine di Dio che ci siamo fatti in base all’immagine della vigna e dell’agricoltore: Dio con le forbici della potatura in mano, che taglia colpendo di qua e di là… Più che tagliare all’impazzata, Dio pota, monda, purifica (la TOB nota che il termine reso con “mondare” al v. 2 può essere tradotto con “purificare”). Il Padre, quindi, fa un lavoro positivo…, perché il tralcio porti frutto e il frutto sia abbondante. Si può aggiungere un’altra osservazione: non tocca a noi questa opera di potatura-purificazione, né verso noi stessi, né verso gli altri: ci pensa il Padre. Non è nostro compito “potarci”: possiamo stare tranquilli, sereni: c’è Chi ci pensa e sa come farlo.