18 Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19 E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». 20 I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; 21 ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». 22 Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23 Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».
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Non penso si possa circoscrivere la portata della Parola che oggi riceviamo dalla bontà di Dio alla paura mondana di questi genitori. Forse dobbiamo pensare soprattutto alla implicita tensione che ci viene proposta tra la “generazione di Adamo”, e la nuova generazione dallo Spirito. Se vale l’ipotesi, può diventare di grande rilievo questa consapevolezza di buio e di cecità. E quindi il valore di una sapienza che non si lascia ingannare da illusioni autoliberatorie o da ipotesi di autodivinizzazione, come è proprio di tutte le sapienze della mondanità. La sapienza ebraico-cristiana ha il suo frutto maturo nella consapevolezza della fragilità assoluta – della mortalità invincibile! – della condizione umana: una tenebra che precede e accompagna tutta l’esistenza.
Così, “come ora ci veda” non appartiene nè alla potenza nè alla sapienza umana: è puro dono! Come accennavamo per i versetti precedenti, la vera nota positiva è data da quella qualifica di “mendicante” annotata dal ver.8: il principio del dono di Dio come sete, come gemito dall’oscurità. Una povertà che costituisce la condizione più vera dell’esistenza umana che Dio vuole visitare e illuminare.
L’altra nota forte che emerge dal nostro testo mi sembra sia la conferma e l’enfasi della “solitudine” che segna chi da Dio è stato visitato e salvato. Il “mondo” non si esalta e non si entusiasma davanti all’evento della salvezza, ma piuttosto “non crede” che si possa compiere il prodigio della salvezza: se quest’uomo ci vede, vuol dire che non era cieco. Ci possiamo domandare se dunque l’intenzione profonda del nostro testo non sia quella di sottolineare cha anche la testimonianza dell’evento salvifico non si può appoggiare su garanzie e verifiche umanamente misurabili. Non vi sono “prove” per arrivare alla fede, ma se mai è dalla fede che scaturiscono prove, e quindi illuminazioni e fioriture di quanto è avvenuto: questa è infatti la strada percorsa personalmente dal cieco sanato: vederci sempre di più! Cogliere in termini sempre più profondi quanto è accaduto, sino al punto di “credere nel Figlio dell’uomo” come alla fine ascolteremo al ver.36.
Per questi motivi torno a chiedermi quale sia il significato di quello che certamente intimorisce i genitori del cieco nato. Forse si può pensare che l’Evangelista Giovanni non pensi solo e tanto ad una sanzione disciplinare, ma, più profondamente, ad una nuova realtà, descritta con straordinaria efficacia da un termine intraducibile in italiano, e cioè quel “diventare extrasinagogo” che non sarebbe allora una punizione, ma appunto una “vita nuova”, quella “vita nuova” che l’ebraismo ha preparato e profetizzato, ma che non può contenere nè circoscivere in sè. Dunque, può senz’altro trattarsi di una disposizione disciplinare che impaurisce questi genitori, ma è soprattutto questa vita nuova che passando per la “solitudine” di cui abbiamo detto sopra, stabilisce una condizione che ha in Gesù il suo unico riferimento. Non corriamo talvolta il rischio di scambiare la nuova comunità messianica, la Chiesa, con la vecchia sinagoga, gloriosa, ma ormai troppo stretta?
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.