1Fu rivolta a Giona, figlio di Amittài, questa parola del Signore: 2«Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me». 3Giona invece si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s’imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore.
4Ma il Signore scatenò sul mare un forte vento e vi fu in mare una tempesta così grande che la nave stava per sfasciarsi. 5I marinai, impauriti, invocarono ciascuno il proprio dio e gettarono in mare quanto avevano sulla nave per alleggerirla. Intanto Giona, sceso nel luogo più in basso della nave, si era coricato e dormiva profondamente. 6Gli si avvicinò il capo dell’equipaggio e gli disse: «Che cosa fai così addormentato? Àlzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo».
Giona 1,1-6

Questo inizio del Libro di Giona mi sembra prezioso perché rivela e chiarisce che la fede ebraico-cristiana conosce il rapporto con Dio come relazione compiuta attraverso la Parola nella vicenda storica della persona o della comunità umana cui è rivolta. Colpisce l’abisso tra la situazione dei suoi compagni di viaggio e la vicenda di Giona, il suo rifiuto, la sua fuga e infine la tristezza della sua situazione di fuggiasco da Dio sceso e nascosto “nel luogo più basso della nave” dove “si era coricato e dormiva profondamente”(ver.5). Si vede bene che per lui tutto si gioca nell’accoglienza o nel rifiuto della Parola che Dio gli rivolge. Così, anche l’attuale dramma che espone loro alla morte, per lui conta poco. E’ come se lui fosse, in certo senso , già morto, perché ha spezzato il suo rapporto con Dio.
Per la gente della nave, invece, il rapporto con dio si gioca nel cercare di ottenere da dio quello di cui si ha bisogno. E’ il dio tipico del fenomeno religioso, dove non importa che dio sia una realtà “personale”, mentre quello che conta è la capacità e il potere – tipico appunto della “religione” – di “piegarlo” alla volontà e al bisogno dei suoi adepti. Anche in questi giorni del Conclave di Roma mi infastidiva molto il discorso sul comportamento dello Spirito Santo : ha fatto bene, ha fatto male… Lo Spirito Santo non è un amuleto. Invocarlo non è volerlo piegare a quello che noi pensiamo meglio. Ma è chiedergli di accoglierci e di farci accoglienti del disegno di Dio, e soprattutto è la richiesta che sia Lui, e non noi, a capire e attuare quello che è bene per noi e per tutti nel mistero della storia.
E mi sembra che Dio condivida questa tesi. In realtà si arriverà a comprendere che lo stesso scatenarsi delle forze del mare è tutto e solo orientato al recupero della comunione con Giona, che Dio sta cercando. I suoi compagni di viaggio cercano di non fare il naufragio, nel quale lui in realtà è già precipitato. Per questo a Giona non sarà difficile suggerire a loro come risolvere il problema eliminandolo dalla loro vicenda e dalla loro vita.
Di ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Ci sentiamo vicini a Giona: chiamato a un compito arduo, si dà alla fuga, “lontano dal Signore”; poi cerca di nascondersi “nel luogo più basso” e si addormanta profondamente. Il sonno è una efficace via di fuga. Facciamo così anche noi, forse, di fronte ai compiti che la vita ci propone o ci impone. Davanti alla possibile tragedia, i marinai gli danno un suggerimento valido: “Alzati!”, reagisci, torna alla tua dignità… e “invoca il tuo Dio!” Solo così potrai (e potremo) superare la timidezza, la paura del compito affidatoci.