Della missionaria comboniana Elisa Kidané:
Vorrei iniziare questa condivisione parlando di quanto sia sacra l’ospitalità in Eritrea, il mio Paese di origine. Nella nostra lingua non esiste la parola straniero: lo straniero è sempre ospite. Già quest’elemento aiuta a comprendere cosa significhi l’accoglienza di colui o di colei che non fa parte del gruppo: non è uno straniero ma un ospite e come tale è accolto, con tutto ciò che di meglio c’è in casa. Penso che questa attenzione a colui che viene dal di fuori si trovi nel dna di tutte le culture. L’ospitalità è la chiave di volta, l’elemento portante di un popolo attorno a cui ruota un comportamento sociale. Nell’attimo in cui ci si dimentica di questo elemento primario tutto è destinato a crollare.
È bello sapere come nella mia terra ci sia questa attenzione verso l’altro, ma mi chiedo che impressione possano avere gli eritrei e le eritree che arrivano in Italia.
L’ospitalità è sacra. Ma lo sanno, ad esempio, i comuni di Vicenza e di Brescia che hanno rifiutato a un gruppo di bambini quello che umanamente si dà al bisognoso che passa da casa, un bicchiere d’acqua e un pasto caldo? Lo sanno che l’ospitalità è la chiave di volta di una società? E che, se comincia a mancare, crollerà tutto?
Leggevo in questi giorni un testo in cui, lo scorso anno, il priore di Bose, Enzo Bianchi, sottolineava come ci si stia dirigendo a piccoli passi verso la barbarie: “In questi ultimi tempi – scriveva – l’andatura è sempre più accelerata e l’emergenza di alcuni fattori deleteri ci porta a riconoscere che ormai ci troviamo in una barbarie diffusa”. Credo che, quando abbiamo a che fare con certe questioni, si debba avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, perché, così facendo, oltre a identificare il problema, si può forse riuscire a trovare una soluzione.
Quando Enzo Bianchi scriveva queste cose non erano ancora avvenuti i fatti di Vicenza o di Brescia. Né Letizia Moratti aveva ancora chiesto al ministro Maroni un decreto legge per permettere di perquisire le case dei migranti a Milano anche senza mandato, così da individuare i clandestini in un Paese che fa di una situazione di debolezza, come è la clandestinità, un crimine. E neppure era stata ancora avanzata la mozione, presentata in questi giorni dalla Lega in Friuli, con cui viene richiesto l’impiego di personale amministrativo presso le unità di pronto soccorso degli ospedali per segnalare alle autorità competenti i clandestini: un modo per aggirare il rifiuto del personale medico di prestarsi ad operazioni di questo genere. Nel momento di massima debolezza, quando una persona è ammalata, ecco comparire la spia: questa è barbarie, non è sicurezza. E non si era neanche verificato il caso della bambina nigeriana di 13 mesi morta dopo ore di attesa perché la burocrazia aveva scoperto che la tessera sanitaria del padre era scaduta.
Accanto a questi, molti altri fatti stanno minando pian piano il patrimonio di dignità di cui l’Italia sembra essersi dimenticata. Né si può dire che gli occidentali non conoscano l’ospitalità. Le storie dei vostri padri, dei vostri nonni, mostrano come l’ospitalità esistesse eccome. C’era povertà, ma c’era un forte senso di ospitalità. Nessuno andava a letto con la pancia vuota: esisteva uno spirito di condivisione. E tutto ciò rischia di essere cancellato.
In tanti rivendicano le radici cristiane, facendone una bandiera politica: bisognerebbe invece tornare ad abbeverarsi alle Sacre Scritture che ci indicano la strada maestra per rendere credibile la nostra appartenenza alla religione (qualsiasi religione, la religione in cui ci si sente a casa).
Le pagine bibliche sono colme di storie e racconti da cui emerge il valore sacro dell’ospitalità. L’ospitalità diventa un comando divino, una promessa battesimale. È un dovere di ognuno verso chiunque, nella consapevolezza che il primo viandante, colui che non aveva dove posare il capo, è stato proprio Cristo. È una grazia che richiede coerenza: non si può dire di avere fede senza essere capaci di opere concrete di ospitalità. L’unica strada maestra è la capacità di accogliere l’altro anche se diverso. Mi viene in mente l’episodio di Abramo e dei tre visitatori (Gn 18,1-10), con il lavaggio dei piedi che è un’usanza che c’era anticamente nella mia terra e che forse c’è anche oggi nei Paesi in cui ancora ci si sporca i piedi camminando. Non si guarda in faccia il visitatore: si sa solo che è qualcuno che chiede di essere accolto. Questo atteggiamento rivela la potenza di ciò che deve essere l’o-spitalità.
E questa ospitalità ha generato sempre benedizione.
L’ospitalità è sacra perché è un principio stabilito da Dio stesso: “Chi accoglie voi, accoglie me. Chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”; “Chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.
Qualcuno si è spinto a dire che il peccato di cui si sarebbero macchiati gli abitanti di Sodoma è l’ingiustizia, l’egoi-smo, l’indisponibilità all’accoglienza, l’odio per lo straniero, la presunzione di essere dalla parte del giusto, della civiltà, del diritto. Quando parliamo di Sodoma, pensiamo sempre ai peccati della carne, ma il peccato più grave, secondo alcune esegesi, è proprio quello di aver odiato l’ospite e di aver avuto la presunzione di essere dalla parte del giusto. Quante volte ancora oggi sentiamo parlare di civiltà superiori? Questo è aberrante, in un Paese che ritiene di avere profonde radici cristiane.
Il silenzio della Chiesa
E ciò che più rammarica è il silenzio di fronte al rifiuto dell’altro, anche il silenzio dei cristiani e della Chiesa: si parla a sproposito di tante cose e poi non si alza la voce quando l’orfano, la vedova, lo straniero, i piccoli, i bambini vengono oppressi e rifiutati solo perché diversi. È qui che vorremmo sentire alta la voce della Chiesa; è qui che vorremmo vedere la gente andare in piazza contro questa deriva barbarica nei confronti degli indifesi.
Più la società si barrica dietro muri di prepotenza, di po-tere, di denaro, più diventa difficile praticare l’ospitalità. Finché si tiene chiuso il proprio cuore, si lascia chiuso anche lo spazio: più è ristretto il proprio spazio, meno possibilità esistono di dialogo e di interazione. Don Tonino Bello diceva che la convivialità delle differenze è il futuro della società: ospitare nel proprio cuore i popoli, ospitare nel proprio cuore il diverso.
Ospitare è scomodo perché fa saltare i propri schemi: per riuscire a fare spazio dentro se stessi al totalmente altro, all’ospite, bisogna avere imparato l’arte del saper morire a se stessi. Bisogna imparare che l’ospitalità verso l’altro significa che il diverso da noi deve diventare diverso “come noi”. Perché, nel dire che gli altri sono diversi, ci dimentichiamo che anche noi siamo diversi per gli altri. C’è una bella versione del tradizionale “Ama il prossimo tuo come te stesso”: “Ama il prossimo tuo, è come te stesso”. È come te stesso: con tutti i tuoi limiti. Con noi stessi siamo molto indulgenti: amare l’altro significa scusarlo nella stessa misura in cui scusiamo noi stessi. Solo se ridimensioniamo la nostra immagine, impareremo che accogliere l’altro vuol dire fargli spazio: assumere un atteggiamento positivo nei confronti del totalmente altro vuol dire riconoscerlo nella sua dimensione umana e culturale. Vuol dire, in altre parole, rispettare l’altro. Per questo dovremmo allenarci ad aprire le nostre menti e i nostri cuori alla conoscenza reciproca, in quanto si ama solo ciò che si conosce: solo allora ci sarà l’incontro di anime e di culture, solo allora saremo capaci di accogliere l’altro, solo allora sapremo che l’accoglienza è sacra.
Fonte: Adista Documenti n. 42 anno 2010