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Pubblichiamo un articolo interessante di Fabrizio Mandreoli apparso sulle pagine di Avvenire – Bologna7 il 17 febbraio 2013 a proposito delle dimissioni del Papa Benedetto XVI.

Le parole dell’ 11 febbraio pronunciate in latino da Benedetto XVI con le quali ha annunciato la decisione di «rinunciare al ministero di vescovo di Roma» possono essere prese come una sorta di singolare e coraggiosa attuazione di quella teologia che egli ha pensato, pregato e vissuto nella sua carriera accademica e nel suo svolgere vari ministeri nella chiesa di cui ultimo è stato, appunto, quello petrino. 

La riflessione di Ratzinger è molto vasta per interessi, ampia per le attenzioni storiche – a partire dai sui penetranti studi su Agostino e Bonaventura – e precisa per puntualizzazioni: la sua rinuncia è un prisma utile con cui rileggerla sinteticamente in almeno tre aspetti principali.

In primo luogo emerge la consapevolezza dell’importanza del ministero di Pietro inteso come vescovo di Roma e colui che presiede il collegio dei vescovi. Una presidenza che agli occhi del Ratzinger teologo ha una sua funzione specifica all’interno del fondamentale ruolo della collegialità episcopale. La remissione del mandato e la possibilità che il conclave elegga un altro vescovo di Roma è un segno eloquente di questa fondamentale realtà: il Papa, come vescovo di Roma, viene scelto ed eletto attraverso una scelta collegiale. La collegialità è davvero una funzione e una caratteristica fondamentale della chiesa.

In secondo luogo si tratta di un ministero. Il gesto delle dimissioni, le parole utilizzate indicano chiaramente che lo stesso papato, come ogni compito nella chiesa, è essenzialmente un ministero. Ministero ossia servizio e diaconia «che tende al bene di tutto il corpo» ecclesiale. Egli compie affermazioni forti: «le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino», oppure egli sente di «dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Queste parole mostrano che chi ha un qualche compito ministeriale nella chiesa svolge essenzialmente un servizio per il bene della chiesa, per il bene dei fedeli e che non può quindi usare il ministero in maniera egoistica, superficiale o irresponsabile. Il ministero del governo della chiesa e dell’annuncio del Vangelo, come lui afferma, è quindi un «peso» non un trono di gloria, un aurea sacrale o un onore mondano.

Un terzo aspetto può essere rinvenuto nelle parole in cui afferma di essere consapevole che «questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando», ma aggiunge: «tuttavia nel mondo di oggi soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede è necessario anche il vigore sia del corpo che dall’animo». In quel «tuttavia» credo vi sia molto. Vi è infatti la consapevolezza dei tempi, il senso dei cambiamenti, della storia, delle domande aperte nella vita della chiesa, delle questioni urgenti interne ed esterne al corpo ecclesiale. Egli ha mostrato bene che il modo di leggere l’ultimo Concilio è quello di un grande evento della tradizione cristiana che ha mostrato le vie e i modi per una autentica ed evangelica riforma della chiesa. Egli usa una parola «riforma» che raramente in epoca moderna è stata utilizzata dai pontefici, almeno fino concilio. Nella sua riflessione sul modo di leggere il concilio egli sceglie proprio questo come termine chiave per dire la necessità della continuità della tradizione e nello stesso tempo della vitalità di una tradizione che per vivere suppone cambiamenti interiori ed esteriori. Nella riflessione del teologo Ratzinger – Benedetto XVI il Concilio rimane così una guida e una luce per le scelte di riforma che stanno davanti alla vita della nostra chiesa e di cui le sue dimissioni costituiscono un segno, spiritualmente ed ecclesialmente eloquentissimo, di incoraggiamento profondo ed autorevole.

Fabrizio Mandreoli (Fter) – Avvenire Bo7 17 febbraio 2013