6 Abbiamo udito l’orgoglio di Moab, il grande orgoglioso, la sua alterigia, il suo orgoglio, la sua tracotanza, l’inconsistenza delle sue chiacchiere. 7 Per questo i Moabiti innalzano un lamento per Moab, si lamentano tutti; per le focacce di uva di Kir-Carèset gemono tutti costernati. 8 Sono squallidi i campi di Chesbon, come pure la vigna di Sibma. Signori di popoli ne hanno spezzato i tralci che raggiungevano Iazer, penetravano fin nel deserto; i loro rami si estendevano liberamente, arrivavano al mare. 9 Per questo io piangerò con il pianto di Iazer sulla vigna di Sibma. Ti inonderò con le mie lacrime, o Chesbon, o Elalè, perché sui tuoi frutti e sulla tua vendemmia è piombato un grido. 10 Sono scomparse gioia e allegria dai frutteti; nelle vigne non si levano più lieti clamori né si grida più allegramente. Il vino nei tini non lo pigia il pigiatore, il grido di gioia è finito. 11 Perciò le mie viscere fremono per Moab come una cetra, il mio intimo freme per Kir-Carèset. 12 Si vedrà Moab affaticarsi sulle alture e venire nel suo santuario per pregare, ma senza successo. 13 Questo è il messaggio che pronunciò un tempo il Signore su Moab. 14 Ma ora il Signore dice: «In tre anni, come gli anni di un salariato, sarà svilita la gloria di Moab con tutta la sua numerosa popolazione. Ne rimarrà solo un resto, piccolo e insignificante».
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Cosa risponde Gerusalemme ai Moabiti che chiedono soccorso? Per poter essere aiutati, i Moabiti devono mettere da parte il loro orgoglio, la loro tracotanza, la vanità della loro vita (“l’inconsistenza delle loro chiacchiere”). C’è anche per loro una promessa di salvezza: essa riguarderà “un resto, piccolo e insignificante”(v.14). Questo resto è costituito proprio dai piccoli, da quelli che non hanno peso nella società, i poveri, coloro cioè che solo su Dio possono contare, non avendo altre risorse. – Tra questi due estremi del brano, c’è una magnifica rappresentazione del lamento dei Moabiti e della loro rovina: non servono più le focacce d’uva in onore di dèi che non possono difendere; le vigne che si perdevano a vista d’occhio sono devastate; “sono scomparse gioia e allegria dai frutteti”; il vino non viene più prodotto dai pigiatori”. Questo vino che viene a mancare ha portato il mio pensiero al calice dell’ultima cena e al vino della nostra eucaristia: segno della gioia che devono scambiarsi i convitati e segno della vita donata da Gesù con il suo sangue.
In sintesi il messaggio del testo profetico di oggi è che la via non è quella della grandezza, ma della piccolezza e del pentimento. La sorte di Moab è una prospettiva per tuta l’umanità, che dovrà abbandonare ogni mira di potere. E’ l’indicazione non di un grande impero, ma di una vita di famiglia.
Non per nulla ancora una volta il profeta si mostra partecipe delle sofferenze che Moab patisce: “io piangerò con il pianto di Iazer sulla vigna di Sibma. Ti inonderò con le mie lacrime, o Chesbon, o Elalè” (vers. 9) e “le mie viscere fremono per Moab come una cetra, il mio intimo freme per Kir-Carèset” (vers. 11).
Infine, come già profetizzato per Israele, anche a Moab rimarrà “un resto”, piccolo e non potente (meglio che “insignificante”, vers. 14), pegno di speranza per il futuro.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo Giovanni.