Approfittando della loro presenza in Italia, potremo incontrare Nour e Roni, un palestinese e un israeliano, membri del famoso movimento non violento “Combatants for Peace”. Saranno lunedì 25 ottobre, alle 18.30 al Centro Poggeschi di via guerrazzi 14/e (leggi il programma del poggeschi).

Due voci, diverse dal solito, che vengono dalla Terra Santa, dal conflitto mediorientale: parlano di pace, di aiuto reciproco, di solidarietà, di lotta non violenta, di fine dell’occupazione, di stato palestinese accanto a quello israeliano… Partiranno dalla loro storia personale per raccontarci in cosa consiste il loro attivismo di pace oggi, che prospettive e che speranze hanno per il futuro.

Qui di seguito una breve scheda informativa dei “combattenti per la pace”, qualche link e un profilo dei due relatori.

I Combattenti per la Pace è un movimento fondato nel 2005 da palestinesi e israeliani che hanno avuto una parte attiva nella spirale di violenza degli anni passati, e che in seguito hanno deciso di deporre le armi.

CFP è un organizzazione bi-nazionale, orientata all’attivismo non violento e all’obiezione di coscienza. I membri israeliani dell’organizzazione rifiutano di servire nei territori occupati, e quelli i palestinesi rifiutano pubblicamente la lotta armata. Sono  tutti attivisti volontari. Agiscono sulla convinzione che solo unendo le forze, israeliane e palestinesi, sia possibile realizzare i loro due obiettivi principali:

  • porre fine all’occupazione israeliana
  • istituire uno Stato palestinese indipendente accanto a Israele.

Il cuore del movimento sono i gruppi bi-nazionali di attivisti locali (circa 200), che operano in diverse aree della Cisgiordania ed Israele. Questi nuclei fungono, nel territorio, da base e riferimento per le varie attività, che sono principalmente:

  • escursioni nei territori occupati, che mostrano agli israeliani la realtà dell’occupazione in Cisgiordania;
  • in-house workshops (laboratori, lavori di gruppo in casa) che si tengono con frequenza e servono a  CFP come strumento principale per trasmettere il proprio messaggio al pubblico di entrambe le parti;
  • azioni di protesta congiunte e manifestazioni di pace, che mettono insieme israeliani e palestinesi, rafforzano la solidarietà e promuovono la fiducia reciproca.

Inoltre:

  • Assistere gli abitanti dei villaggi e le altre popolazioni palestinesi che hanno subito torti ingiustificati a motivo dell’occupazione (ad esempio – la raccolta delle olive per gli agricoltori che hanno accesso limitato alla propria terra,  o accompagnamento di pastori che soffrono vessazioni da parte dei coloni e le forze armate).
  • speciali eventi pubblici, di alto profilo, come la cerimonia nel Giorno della memoria del conflitto israelo-palestinese, che presenta un’alternativa alla violenza e alla de-umanizzazione degli altri, attraverso la condivisione del lutto per tutte le vittime del conflitto, di entrambe le parti.

Per approfondire:

LE BIOGRAFIE

Nour Shehadah

Vive con sua moglie a Tulkarem, in Cisgiordania. Ha 40 anni, e lavora come operatore sociale. In passato è stato ricercato da Israele e leader locale di Fatah.

Sono nato e cresciuto nel campo profughi palestinese di Tulkarem. Vivevamo in una situazione molto difficile, non come esseri umani. Tutto intorno a me ho sempre visto violenza, assassini e arresti. Nel 1972 l’Esercito israeliano (Israeli Defence Force – IDF) arrestò mio padre per possesso di armi, tenendolo in prigione per qualche tempo.

Quando avevo 15 anni due giovani furono uccisi proprio qui, nel campo. Fu in seguito a questo evento che decisi di prendere parte alla Resistenza. Nello stesso periodo fu anche scoperto che l’IDF aveva avvelenato alcuni ragazzi, studenti di una scuola che si erano gravemente ammalati. La gente di Tulkarem ne fu molto scossa, e in tanti iniziarono a partecipare alle manifestazioni. Proprio in una di queste fui arrestato per la prima volta.

Nel 1987, durante la prima Intifada, ho finito il liceo e mi sono iscritto alla Birzeit University. L’anno successivo l’Esercito israeliano la chiuse, insieme ad altre Università, ed io venni arrestato nuovamente e punito per le mie attività nel movimento di resistenza. Le intimidazioni erano continue: alla fine, dopo un ulteriore arresto, sono scappato. Ed ho continuato a scappare. Sono diventato un ricercato, da Israele.

Durante la fuga sono diventato responsabile per l’area politica e militare del partito locale di Fatah. Volevamo combattere contro l’occupazione in ogni modo, pur di ottenere la libertà per il popolo palestinese. Cercavo anche di sposarmi in quel periodo, ma per un ricercato trovare moglie è un’impresa difficile. Ho conosciuto la mia futura sposa, Amal, durante una manifestazione: stava tirando pietre contro i soldati, ed ho capito immediatamente che era la donna giusta per me.

Il giorno delle nozze, nel 1989, soldati dell’Esercito israeliano travestiti da donna vennero ad arrestarmi. Fortunatamente fuono scoperti in tempo, e ci furono degli scontri nel campo. Sono fuggito con la mia fidanzata sulle montagne, e ci siamo sposati in segreto. Per i sei anni successivi non ho mai dormito nel mio letto. Mi sono nascosto per un anno, poi mi hanno trovato e messo in prigione per cinque anni.

In prigione sono stato interrogato per 86 giorni. Fu un periodo durissimo, pieno di percosse, intimidazioni e torture psicologiche, anche peggiori di quelle fisiche. Per dieci giorni mi hanno tenuto rinchiuso in una stanza molto piccola insieme ad altre nove persone: ci hanno tenuti legati mani e piedi, seduti. Se avevi bisogno di andare in bagno, ti dovevi arrangiare.

Durante il periodo che ho passato in prigione sono diventato rappresentante dei prigionieri politici palestinesi, e attraverso la mediazione continua con le guardie israeliane ho imparato ad usare il dialogo perché i nostri bisogni venissero presi in considerazione. Il giorno in cui lasciai la prigione, il guardiano mi incoraggiò a prendere parte al processo di pace. “Sono un uomo libero adesso – gli risposi – e posso fare tutto quello che voglio. Con la pace non si ottiene nulla”. Ed ho pensato tra me e me: prima gli israeliani mi arrestano, e poi mi chiedono di fare la pace!

Poco tempo dopo il mio rilascio, nel 2000, fu assassinato Thabet Thabet, membro del movimento di Yasser Arafat, che credeva appassionatamente nel processo di pace. Uccidendo lui, gli israeliani avevano inferto un colpo mortale alla speranza e alla pace. Questo non fece che aumentare l’antagonismo. Da quel momento tutto quello che abbiamo visto sono stati aerei da Guerra, carri armati, incursioni quotidiane. Persi quattro dei miei migliori amici. Fu in quel periodo che iniziai a chiedermi dove ci avrebbe portato tutta quella violenza.

Una professoressa della mia università mi chiese di mettere in piedi un movimento nonviolento. Dato che niente altro sembrava funzionare, pensai di dargli una possibilità, e riunii intorno a me 20 persone per un training. Non fu facile convincere le persone a seguirmi, ma più leggevo gli scritti di Gandhi, Martin Luther King e Nelson Mandela, più mi convincevo che quella fosse la sola strada possibile. Sapevo che la nonviolenza oltre a renderci migliori, avrebbe funzionato meglio con gli israeliani della violenza. Molte persone a Tulkarem non erano d’accordo con me, e mi chiamavano “traditore”. Ma io mi sono sempre rifiutato di dar loro ascolto.

Lo stesso giorno che ho aperto il mio ufficio per la pace, sono stato arrestato un’altra volta dall’Esercito israeliano, proprio mentre ero sul punto di partire per una gita con mia moglie e i nostri figli. Mi bendarono, mi legarono e mi interrogarono, ancora una volta. Sapevo bene il perché: la nonviolenza spaventa l’Esercito anche più della violenza.

Da quel giorno in avanti mi sono impegnato nel movimento nonviolento, e con il passare degli anni ho convinto molti amici intorno a me a pensarla allo stesso modo. Nel gruppo dei Combattenti per la Pace sono felice di parlare con giovani soldati israeliani che hanno abbandonato le armi rifiutando di prestare servizio, e che sono addolorati per ciò che hanno fatto. Posso perdonarli.

Non voglio uccidere e non voglio essere ucciso, il nostro essere insieme palestinesi e israeliani che si sono combattuti e che ora credono nella pace e nella fine dell’occupazione è una speranza non solo per noi ma per il mondo.

Roni Segoly

Il mio nome è Roni e nell’agosto del 2007 sono diventato membro dell’associazione “Combatants for Peace” (Combattenti per la Pace). Da allora sono diventato membro attivo e questa è la mia storia. Sono cresciuto a Gerusalemme negli anni ‘70, gli anni della sensazione di euforia dopo la Guerra dei Sei Giorni. Ero un ragazzo, e come la maggior parte dei giovani della mia età, mi sono impegnato in un movimento giovanile: “Beitar”, il movimento del partito Herut, che più tardi sarebbe diventato il Likud. Ero un giovane di destra e partecipavo a raduni di sostegno alla costruzione degli insediamenti, che avevano appena cominciato a spuntare sulle colline della Cisgiordania, mentre il governo chiudeva gli occhi. In quel periodo il mio credo era basato sul fatto che avevamo liberato terre sacre: soltanto per caso c’era un gruppo di persone che viveva là e che rivendicava di essere una nazione. Si sarebbe dovuto trovare un’altra soluzione nel Medio Oriente per loro: c’erano altri 22 stati arabi dove sarebbero potuti andare, dalla nostra parte avevamo una ragione assoluta.

Nel 1975 entrai a far parte dell’Esercito – l’Israeli  Defence Force (IDF) – e presi servizio in un avamposto nella Striscia di Gaza. Durante il mio servizio, il partito Likud salì al potere per la prima volta e la sensazione dei miei amici era che, se fossimo stati abbastanza ostinati, i palestinesi si sarebbero arresi e sarebbero andati via, o avrebbero accettato la nostra autorità. Credevamo che non ci fosse altra strada. Al termine del mio servizio militare, iniziai a lavorare per la polizia nel “Dipartimento delle Minoranze” a Gerusalemme. Per la prima volta dovetti effettivamente avere a che fare con palestinesi. Imparai la loro lingua, i loro costumi, e ricordo come eravamo soliti giocare “al gatto e al topo” con i residenti di Gerusalemme Est. Loro tentavano di dimostrare il loro nazionalismo in ogni modo: dipingevano le loro auto con i colori della bandiera e noi combattevamo ogni traccia di nazionalismo con perseveranza ed aggressività. Inutile dire che innalzare una bandiera palestinese era un crimine serio. Nel 1983 lasciai le forze di polizia, ed entrai nei servizi segreti israeliani (Shabak), dove prestai servizio fino al 1994 nei Territori Occupati in diverse posizioni: scopo principale era combattere il terrorismo.

Se guardo indietro a dove ero allora e penso a dove mi trovo oggi, mi rendo conto che naturalmente è stato un lungo processo. Non mi sono svegliato una mattina con una nuova concezione politica. È stato un cammino iniziato anni fa, quando mi trovai a gestire le grandi crepe che si erano formate nella mia certezza che la strada percorsa da me e dal mio Paese fosse quella giusta. Il divario si ampliò fino a che non potei più continuare a pendere tra le due parti: scelsi la strada che sembrava la più naturale per me, quella che promuove la pace e l’uguaglianza.

Il modo migliore per descrivere come avvenne il cambiamento in me è riportare alcuni momenti cruciali del mio passato.

Durante la fine degli anni ’80 scoppiò la prima Intifada. Un vero e proprio sollevamento popolare, per comprendere il quale anche le organizzazioni palestinesi impiegarono del tempo. Durante le prime settimane, i veri eroi erano le masse. In molti luoghi nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza migliaia di persone marciavano senza paura verso l’esercito israeliano. Per la prima volta vidi giovani e adulti sollevare le teste, gli occhi luccicanti, pieni di orgoglio e persistenza. Credevano di essere sul punto di creare il proprio paese, e che niente avrebbe potuto fermarli. Per quanto riguarda me, che stavo lavorando nei servizi segreti, mi confrontavo non con terroristi (per quelle persone era ovvio chi è buono e chi è cattivo) ma con una nazione che si stava ribellando. Improvvisamente ritrovai me stesso: io, che nella mia infanzia sognavo gli eroi ebrei che operavano in segreto, le loro battaglie contro l’occupazione britannica, vedevo persone pronte a sacrificarsi per liberarsi da uno stato occupante. Ma questa volta ero io ad essere dall’altra parte dell’equazione. Fu questa la prima frattura che iniziò a scuotere le mie convinzioni. Il mio compito non era facile: nonostante credessi ancora che stavamo difendendo il nostro paese, tuttavia capivo che c’era un divario tra il fatto che dovevo essere malvagio con qualcuno durante il lavoro, per poi tornare alla pace e alla tranquillità della mia casa, farmi un bagno, abbracciare moglie e figli. È un divario già difficile di per sé, ma ma quando si comincia a dubitare di quello che si sta facendo, diventa completamente insopportabile.

Il secondo punto che mi piacerebbe trattare è la casa in cui sono cresciuto. Sono nato nel quartiere di Gerusalemme, Baqa, il nome arabo del quartiere che viene usato ancora oggi. Sono cresciuto inuna casa araba, con i soffitti alti, bei pavimenti piastrellati e pareti spesse. Il fatto che in passato arabi vivessero là non mi toccava minimamente. Nel 1967, subito dopo la guerra dei Sei Giorni, (avevo 10 anni) alcuni arabi bussarono alla porta e chiesero – in un inglese un po’ incerto – di poter vedere la casa: era quella dove abitavano in passato. Fu una situazione strana e imbarazzante. Cosa facciamo? E cosa vogliono? Pensavo, “questa casa è ovviamente nostra”. Tuttavia li lasciammo entrare, loro si guardarono intorno per poi andare via. Non li vedemmo più da quel giorno. Suppongo che non siamo stati molto gentili con loro, ma quel momento è rimasto impresso nella mia memoria da allora.

Nel 2006 andai con mia madre in Romania per scoprire quali fossero le mie radici. In altre parole, il luogo da cui mia madre scappò dopo la seconda Guerra mondiale. Andammo nel piccolo paese dove lei nacque. Era un villaggio deserto nel Nord del paese e cercammo la casa in cui viveva. Oggi ovviamente altri rumeni ci abitano perché non ci sono quasi più ebrei rimasti nell’area. Ma non la trovammo, e allora bussammo alla porta di una casa vicina. La persona che aprì chiese cosa volessimo. Noi spiegammo e loro furono molto scortesi. Allora capii improvvisamente che quella era una storia identica a quella accaduta a me durante la mia infanzia con gli abitanti arabi della casa in cui ero nato. Entrambi i popoli, palestinesi e israeliani, sono legati reciprocamente dalla storia, e le nostre vicende sono così simili che è quasi impossibile da capire. Noi, figli di rifugiati dall’Europa, abbiamo realizzato il nostro sogno di uno Stato ebraico, rendendo un’altra nazione uno paese di rifugiati. Noi, che siamo stati resi minoranza per tutta la nostra storia, stiamo oggi controllando un’altra nazione. Il fatto è che il nostro unico modo di governarla è di opprimerla da un lato, e dall’altro quello di neggare loro qualsiasi possibilità di uguaglianza e desiderio di nazionalismo. Com’è possibile che abbiamo cambiato pelle, e in che modo stiamo cercando di giustificare questo a noi stessi? Questa storia non ha buoni e cattivi, solo storie che sono intersecate l’una con l’altra.

Il terzo momento importante della mia storia riguarda il periodo in cui ho vissuto all’estero, dal 2000 al 2007. E’ stata un’esperienza che mi ha reso capace di avere prospettive differenti sulla vita nel Medioriente. Ho scoperto che ci sono altre nazioni che si sono combattute nel mondo ma che ora hanno relazioni di convivenza pacifica e si augurano di avere un futuro ancora migliore. Nel 2007, quando mi apprestavo a tornare in Israele, vidi un video-clip sull’apertura di una pompa fognaria vicino all’insediamento di Efrat. Per farlo avevano dovuto sradicare un uliveto appartenente ad un villaggio arabo vicino. Gli abitanti del villaggio si erano appellati alla Corte Suprema di Giustizia perdendo la causa, e il video mostrava le immagini del momento esatto in cui i camion entravano nel campo. Due immagini, fra quelle che vidi, chiusero il processo di trasformazione che avevo attraversato durante gli ultimi anni. La prima mostrava alcuni contadini palestinesi piangenti, in piedi senza speranza; ma ciò che catturò il mio cuore fu il fatto che al loro fianco stavano giovani israeliani, che li abbracciavano e piangevano con loro. Non conoscevo questo tipo di solidarietà. Una seconda immagine che si scolpì nella mia memoria fu quella dei soldati che facevano la guardia ai bulldozers, camminavano al loro fianco con i manganelli nelle mani, sentendosi dei re. Mio figlio avrebbe dovuto entrare nell’esercito l’anno seguente e quel pensiero mi scioccò. Mi ci volle un po’ prima che fossi in grado a raccontare questa storia. Mi ci volle tempo prima di riuscire a spiegare a me stesso cosa stesse succedendo.

Sono convinto della giustizia della nostra strada, so di appartenere ad una minoranza qui in Israele, ma siamo determinati. Non si può opprimere a lungo un altro paese, e non c’è modo di gestire un’occupazione in modo “umanitario”. Non c’è modo di essere malvagi con altre persone senza che questo male penetri nelle nostre vite. Se siamo i veri portatori dello spirito del giudaismo, bisogna riconoscere il diritto dell’altro, anche se non è ebreo. La politica israeliana sui Territori Occupati è stata creata e basata sul concetto di controllo, sul furto e sull’oppressione politica di un altro paese. La parola magica per giustificare tutto questo è sempre “sicurezza”, ma non sono queste espressioni del giudaismo, e la sola cosa che attualmente il mio paese rappresenta per il popolo palestinese e per una grossa parte del mondo è “il lato più brutto dell’umanità”. Non sono sicuro di come sia possibile che la maggior parte dei cittadini di questo paese ignori la situazione, compresi alcuni amici e parenti. Come è possibile che si siano preoccupati di più per gli animali che soffrivano la fame nello zoo di Gaza durante la guerra, rispetto alle centinaia di bambini che sono stati uccisi da noi durante la guerra? Stiamo sventolando gli slogan della legge e della sicurezza per nulla, e nella Cisgiordania testimoniamo l’esatto opposto di “giudaismo” e “sionismo”. Per come io comprendo questa realtà, nessuna parte (israeliana o palestinese) si arrenderà; noi non torneremo in Europa e loro non lasceranno l’area. Non abbiamo la capacità di governare un’altra nazione che corrisponde alla metà della nostra dimensione, non è possibile. Non con la forza, non con mezzi finanziari e in nessun’altra maniera. Non è possibile gestire un governo democratico se tiene sotto occupazione milioni di persone che non hanno uguali diritti. È la stessa cosa che accadde in Sudafrica: non si poteva avere un governo democratico mentre c’era l’apartheid. Controllare con la forza non danneggia solo l’occupato, ma anche l’occupante. La violenza penetra tra noi, la nostra economia non può prosperare e tutti i valori a cui siamo stati educati sono schiacciati nei Territori Occupati. Noi abbiamo bisogno di liberarci dell’occupazione, forse persino più di quanto ne abbiano i palestinesi. Non possiamo essere la sola democrazia illuminata nel Medioriente, mentre alle persone del villaggio che dista solo dieci minuti da dove vivo io, solo per le loro origini, vengono negati i diritti umani fondamentali.

Le valutazioni di diversi conflitti nel mondo mostrano sempre che si finisce con negoziazioni e qualche compromesso. Desmond Tutu disse: “Un uomo è tale quando riconosce gli altri come esseri umani” e il vecchio Hillel disse: “Ciò che per te è odioso, non farlo a tuo fratello: questa è tutta la Torah; il resto è spiegazione; va’ e impara.” A volte la gente sostiene che io abbia un’anima gentile (in ebraico diciamo: “Yefe Nefesh”) nonostante questa sia diventata un’espressione denigratoria per dire che quelli di sinistra sono “amanti degli arabi”. In realtà io sono orgoglioso di questa definizione, nello stesso identico modo in cui mi considero un patriota israeliano.