16 Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la coorte. 17 Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. 18 Cominciarono poi a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». 19 E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui. 20 Dopo averlo schernito, lo spogliarono della porpora e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.
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L’irrisione fa parte della Passione. In Marco 10,34, al terzo annuncio della sua Pasqua, Gesù stesso lo aveva preannunciato ai discepoli. E la cosa si ripeterà anche alla sua crocifissione, in Marco 15,31. Fa parte dell’umiliazione che l’uomo incontra nella sua storia ferita, quando viene messo in evidenza quello che avrebbe potuto o voluto essere, ma non gli è stato possibile. Anzi, la sua attuale condizione è in tale scandaloso contrasto con ogni ipotesi di grandezza mondana, da apparire come una specie di farsa crudele. Così è sempre, in ogni amara e vilenta celebrazione della crudeltà del cuore umano.
L’aggravante è data dal fatto che a far questo sono soldati stranieri e pagani che si appropriano del titolo regale giudaico e quindi con ben maggiore distanza culturale e spirituale riducono tutto ad un gioco gestito da chi, fosse anche l’ultimo dei dominatori, è più forte non solo del condannato, ma anche di tutta la tradizione spirituale del popolo cui il deriso appartiene.
Ma tutto questo è accompagnato da un fatto clamoroso! E cioè che quello che ciò che ora è occasione di derisione non solo è assolutamente vero, ma lo è secondo dimensioni universali che coinvolgono gli stessi beffeggiatori. Proprio quel “re dei Giudei” è anche per loro il Salvatore. Anzi, è uno di loro, il centurione di Marco 15,39, che primo tra tutti, “vistolo spirare in quel modo, disse: Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Il testo odierno si apre e si chiude con la stessa indicazione: “lo condussero”. “Come un agnello condotto al macello…” – E’ nota la prassi in uso nell’antichità di irridere il condannato a morte, come descritto da Marco; qui vediamo che partecipano alla divertente rappresentazione i soldati di tutta la coorte: circa duecento persone! L’abito rosso era quello dei soldati romani; la corona e la canna-scettro sono simboli del potere. Lo sputo vuol scimiottare il bacio di riconoscimento e adorazione (ad-os, la bocca), atteggiamento rappresentato anche dall’inginocchiarsi… Eppure, inconsapevolmente, involontariamente,nello scherno e nell’offesa viene affermata la regalità vera del prigioniero, secondo i criteri inconsueti di Dio: la regalità povera e umile, lontana dalle modalità di potenza e di efficienza cui noi siamo abituati.
Il processo è concluso. Ora i soldati mettono in scena una farsa, una parodia del potere. Incoronano re Gesù, lo salutano, lo percuotono,gli sputano addosso, lo scherniscono, infine lo destituiscono e lo conducono fuori per crocifiggerlo. I soldati mettono in scena, in modo beffardo, tutta la violenza del potere mondano, la violenza da cui il potere nasce e quella per cui finisce, la sua capacità di distruzione e di morte. Gesù è pienamente consapevole e prende su di sé tutta questa violenza: la sua morte, abbracciata con amore, sarà capace di rovesciare la storia, trasformando l’odio in amore, l’aggressione in perdono, la morte in vita.