13 Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».
14 Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15 dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Dall’Egitto ho chiamato mio figlio.
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Tutta la vicenda di Giuseppe, come è ricordata nella memoria evangelica di Matteo, è preziosa per cogliere il “paradigma” della vita del credente: il continuo intervento di Dio che con la sua Parola (l’Angelo, il Vangelo) guida il suo cammino. Come già dicevamo, questo apparire in sogno sottolinea, nel linguaggio biblico, una guida che non concede dilazioni né eccezioni: Giuseppe, in silenzio, si alza e obbedisce. Nel nostro brano, come a sottolineare anche il travaglio di questa obbedienza della fede, dice “si alzò, nella notte”. E bisogna fuggire, andare in esilio, perché è alto il pericolo che il Bambino venga ucciso. Tutt’al contrario che essere una ”fuga dal mondo” e un’evasione paradisiaca, la fede è sempre l’immersione di Dio nella storia, nella nostra storia, nella fragilità e nei drammi della storia di ciascuno e di tutti. Per Giuseppe e per la sua obbedienza di fede, la Persona e il mistero di Dio è raccolto nella Persona e nella vicenda di quel Bambino!
E deve fuggire “in Egitto”. Ma qui, la drammaticità del momento s’incontra con la meraviglia e la potenza della fede di Gesù! Questa fuga e questo esilio devono celebrare il mistero del Signore Gesù, che visita tutta la storia e in essa porta a compimento il disegno divino della salvezza. La citazione di Osea 11,1, “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio”, non è più solamente la memoria delle antiche vicende del Popolo di Dio, e quindi la memoria di quella prima Pasqua, rimasta poi per sempre nella memoria, nella fede e nel culto del Popolo della Prima Alleanza, ma qui anticipa, negli eventi e nei segni, la Pasqua di Gesù, pienezza e adempimento della Pasqua antica, liberazione di tutta l’umanità dal Male e dalla Morte. Il “figlio”, che nel testo profetico è lo stesso Israele, ora giunge alla sua piena rivelazione nella Persona e nell’opera del Figlio di Dio, che il Padre “chiama” dalla morte, perché sia il primogenito dei risorti, di un’umanità nuova chiamata alla vita divina, alla vita senza fine.
E’ bello considerare come anche nella nostra modesta esistenza tutte le meraviglie della storia della salvezza si celebrino e si compiano. Anche noi mandati nell’oscurità e nella fatica della storia. Anche noi “chiamati”, “svegliati” dalla prigionia della morte e chiamati alla vita nuova dei risorti. Anche noi, chiamati figli.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Giuseppe, Gesù e Maria, in fuga rocambolesca da morte certa per mano del potere locale, sono una famiglia di richiedenti asilo, di rifugiati, anzi ne sono l’archetipo. Oggi, per quella vicenda, noi riceviamo il dono della visita di Gesù nelle persone e nelle famiglie dei nostri fratelli rifugiati, icone dolenti della piccola famiglia in precipitosa fuga da Betlemme. Quegli eventi lontani rovesciano la nostra prospettiva di ricchi cittadini dell’Unione Europea: non siamo noi ad accoglierli per dovere umanitario, ma sono loro che ci portano la Buona Notizia di Gesù con tale potenza ed intensità che non possiamo più ignorarla.