25 Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: 26 «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27 Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo.
28 Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? 29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: 30 Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. 31 Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32 Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace. 33 Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
34 Il sale è buono, ma se anche il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si salerà? 35 Non serve né per la terra né per il concime e così lo buttano via. Chi ha orecchi per intendere, intenda».
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Già pregando con le parole del testo precedente promettevo che avremmo dovuto entrare più profondamente nelle parole che condannavano chi non aderiva all’invito al banchetto di Dio perchè impegnato in questioni sue, considerate più importanti o più urgenti. Oggi questo si estremizza con l’affermazione dell’ “odio” verso i propri famigliari come condizione necessaria per seguire il Signore. Proviamo dunque a fare qualche passo, sapendo bene che mai nessuno, e neppure la stessa Chiesa, avranno finito di entrare nelle parole del Signore che sono sempre più grandi di chi le ascolta, e quindi mai possono essere veramente “capìte”, ma sempre e solo ascoltate e ricevute, e obbedite con tutti i limiti della nostra persona. La Parola di Dio è infinita e come diceva un Padre della Chiesa “cresce con chi la legge”.
“Essere discepolo” del Signore implica l’entrare sempre più profondamente nella Pasqua di Gesù. Implica il nostro incessante morire e risorgere in Lui. Tutto di noi è chiamato incessantemente a morire e a risorgere. Tutto deve continuamente essere immerso nel Vangelo per risorgere incessantemente nuovo. Questo “odio” mi sembra di poterlo leggere appunto in questa prospettiva. Prendiamo appunto, come Gesù dice al ver.26, l’esempio della famiglia. Ricordiamoci che il nome stesso di “famiglia” non indica una realta molto positiva, perche la parola deriva da un termine della lingua latina che significa “servitù, servizio”. Nei nostri dialetti italiani qualcosa è rimasto e la parola “famèi”, oggi poco usata anche in dialetto, indica un servo. Ricordiamoci che nella lingua greca il termine “figlio” e il termine “servo” si possono rendere con la stessa parola. Nella cultura dell’antica Roma la famiglia non era solo quella caratterizzata da vincoli si sangue, ma era più ampiamente l’insieme di liberi e servi – o addirittura schiavi – che abitavano nella stessa casa. Da quella concezione servile della famiglia, che arrivava a dare al padre-padrone il “diritto di vita e di morte”sui suoi famigliari, il cristianesimo ci ha liberati, anche se in realtà la cultura dominante anche tra i cristiani continua a tenere una certa preminenza del potere maschile sia sulla donna sia sui figli. Al contrario, la nostra cultura – o sotto-cultura – contemporanea, tende a distruggere ogni legame e dipendenza tra le persone che vivono insieme per vincoli di sangue, fino a lasciare le persone del tutto sole, sia i bambini sia i vecchi, o gli ammalati, o chi ha sbagliato…Perdonate se mi dilungo in questi pensieri. Lo faccio per tentare di mostrare che oggi come in passato siamo chiamati ad approfondire il significato di ogni realtà, accettando di rinunciare a idee e concezioni, e anche eventualmente a poteri e privilegi, per vivere sempre tutto nella perenne novità del Vangelo del Signore Gesù. Essere suoi discepoli implica questo accettare di mettersi incessantemente in gioco e mettere in gioco tutto quello che, non rinnovato ogni giorno dal Vangelo, rischia di trasformarsi in una realtà negativa e in una prigione. “Come è bello e come è soave che i fratelli vivano insieme”: così inizia il Salmo 132; e qualcuno commenta il versetto, dicendo che quell’ “insieme”, vuol dire “nell’Uno” e quindi implica che si viva in Lui, nel Signore. Vivere semplicemente “insieme” tra noi, espone a tutti i pericoli del potere o del rifiuto, mentre vivere “in Lui” è speranza di rapporti sempre nuovi e luminosi. Bisogna ogni giorno, dicevamo, far morire – questo è il senso di quell’ “odiare”! – tutto e tutti perchè tutto e tutti risorgano nel Signore.
La nostra preghiera di ogni giorno nell’ascolto della Parola di Dio è interpretata – anche se la preghiera non è solo quello – dalle due immagini del costruttore e del guerriero dei vers.28-33, come quotidiana “sfida” che il giudizio evangelico porta sulla nostra vita. Diversamente dal nipote del “Gattopardo” che cinicamente diceva che bisogna che tutto cambi perchè nulla cambi, noi crediamo nel potere del Signore del Vangelo di fare sempre nuove tutte le cose.
In questa prospettiva ascolto anche i vers.34-35 sul sale. La fede del discepolo del Signore è “sale” che dà sapore divino a tutte le realtà. Guai se questo sale diventa insipido. Guai se la Chiesa si rassegna alla “mondanità” o addirittura la difende! Guai a noi, se oggi rinunciamo a lasciarci “aggredire” dalla bellezza di queste parole che peraltro incontreremo anche nella Liturgia della prossima domenica.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Il ragionamento di Gesù dei v.28 e 29 mi fa pensare che se io fossi il costruttore della torre e avessi la prudenza di chi sa fare i calcoli, molto probabilmente non inizierei l’impresa. Così come se fossi il re con solo 10.000 uomini cercherei in tutti i modi l’accordo con l’avversario. Troppi rischi.
Per fortuna per essere discepoli del Signore non bisogna fare questi calcoli. Non contano i mezzi che abbiamo: i nostri soldi, i nostri mattoni, i nostri operai, la nostra terra… Così non ci basterebbero 10.000 nostri fedeli familiari, amici, fratelli per vincere la battaglia della vita e dell’amore.
Per essere discepolo del Signore occorre non avere niente, niente di nostro, niente di conquistato, di posseduto, niente che ci prenda il cuore e ci porti via da Lui. Essere cioè come il sale… puro “sapore” e basta!
Penso che “prendere la propria croce e seguirlo” sia il lavoro spirituale quotidiano che facciamo, aiutati dalla parola di Dio e dalla eucarestia, per spogliarci di tutto e seguirlo, per non perdere il sapore… sia il nostro “calcolare” che ci conviene seguirlo nella Pasqua piuttosto che ogni altra impresa nostra.
Ci viene assicurato che, lungo questa strada, troveremo 100 volte in più fratelli, amici, mogli, fratelli e sorelle, vita.
Mi è sembrato,dal Vangelo di oggi, che il sapore di un’esistenza cristiana corrisponda a quello della croce di Cristo e dalla Pasqua nell’esistenza umana.
Più che un tentativo intraprendente di raggiungere un’offerta totale di sè mi sembra però un viaggio in cui ci conduce Lui.’Chi non porta la croce e non viene dietro di me non può essere mio discepolo’.
Non facciamo strada noi verso la croce. Sempre Lui.
Come quando all’inizio della Regola si dice: “nell’atto operante in noi della Sua morte di croce.”
Anche per il testo di oggi è importante tenere presente che siamo dentro al viaggio pasquale di Gesù verso Gerusalemme, da lui intrapreso con determinazione fin dal capitolo 9. Quindi anche l’andare con lui della folla non può evidentemente essere a prescindere da questo. D’altra parte secondo l’immagine della parabola di ieri, Gesù è quel servo inviato a chiamare al banchetto, per cui il viaggio a Gerusalemme viene a identificarsi con questa chiamata la banchetto.
Al v.33, per indicare la rinuncia ai propri averi, troviamo un verbo che è normalmente usato col significato di congedarsi, dando così ancora di più il senso che il dato importante è la partecipazione al viaggio dietro a Gesù.
Mentre nella parabola di ieri i beni che trattenevano gli invitati erano prevalentemente materiali (i campi, i buoi), tranne che per il terzo caso, quello delle nozze; oggi al v. 26 vengono citati in rapporti, con gli altri e con sè stessi. Se si considera il v.33, dove si parla di rinunciare ai propri averi, si può dedurre che qui questi rapporti sono visti nella loro solidificazione, fino a essere una proprietà. E in questo senso non si adattano al viaggio. Invece la propria croce non è di ostacolo, anzi è il bagaglio che occorre prendere su. D’altra parte se si considera il v.31 di ieri che parla di poveri, storpi ciechi e zoppi, il prendere la propria croce non sembra essere tanto diverso dall’andare dietro al Signore così come si è, nella propria reale condizione, quella che lui è venuta ad assumere.
I due esempi fatti da Gesù sono davvero paradossali, in relazione alla conclusione da lui espressa al v. 33. L’accenno alla derisone presente nel primo esempio è poi particolarmente stridente, in quanto rimanda direttamente alla derisione che lui subirà quando sarà sulla croce, a fronte di quello che sembrerà il segno inequivocabile del fallimento della sua opera e della sua impotenza. Il paradosso delle due parabole ci vuole quindi forse spingere ad una sapienza profonda, che esce dalle categorie mondane e sà vedere oltre l’apparenza dove è la vera potenza e di conseguenza quale è la strada della sequela dei discepoli del Signore.
La croce non è la sofferenza per seguire Gesù, ma la rinunzia a tutto quanto di materiale su cui l’uomo possa contare pretendendo di poter fare a meno di Dio e mettere Dio stesso in secondo piano.