11,1 Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». 2 Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
Padre, sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
3 dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
4 e perdonaci i nostri peccati,
perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore,
e non ci indurre in tentazione».
Non mi sembra sia questo il luogo e il tempo per tentare un “commento” della preghiera che Gesù ci ha insegnato. Mi limito a collocare il nostro brano di oggi all’interno del grande cammino che stiamo facendo con Gesù verso Gerusalemme e quindi verso la sua e nostra Pasqua. Nè mi sembra opportuno tentare un confronto con il testo parallelo di Matteo 6,9-13, che farete bene peraltro a considerare.
Il Vangelo non ci fa conoscere il contenuto della preghiera insegnata da Giovanni ai suoi discepoli, però, ritornando a Luca 5,33, troverete affermazioni e considerazioni che abbiamo già tentato di commentare e che ci davano il senso della differenza tra preghiera e preghiera, in rapporto all’attesa di un evento non ancora compiuto e alla preghiera che nasce quando possiamo celebrare la presenza di quello che attendavamo. Qui, al ver.2, mi sembra impressionante, anche in rapporto al testo di Matteo, la semplicità e incisività della prima invocazione:”Padre”! Quanto ci piace la versione di Matteo – “Padre nostro” – altrettanto ci piace qui questo semplice e diretto “Padre”, che sembra celebrare più direttamente e compiutamente l’espressione usata, forse, da Gesù stesso. Gesù che forse non dice “Padre nostro”, ma più direttamente – ed esclusivamente! – “Padre”. Un testo di Basilio di Cesarea ascoltato proprio questa mattina avverte che nessun termine, neppure la parola “padre”, preso isolatamente, rende ragione del mistero di DIo.Questo è vero, ma non toglie che questo appellativo risuoni qui come segno straordinario della rivelazione suprema che Gesù Cristo ha fatto all’umanità, e cioè la paternità di Dio. Dio è essenzialmente il Padre, per la nostra fede cristiana. Certamente è il Creatore, il Salvatore, l’Onnipotente…ma il suo nome “supremo”, quello che lo distingue da tutto quello che le altre fedi sanno di Lui, è proprio la sua paternità!
Domandare quindi che “sia santificato il tuo nome” sembra collegarsi in modo stringente all’appellativo di Padre. Chiedere che “sia santificato” significa domandare che il suo nome risplenda sempre più per la sua unicità, e per come a Lui solo possa essere attribuito. La santificazione del nome di Dio Padre è dunque il ripudio assoluto di ogni idolatrìa, di ogni sacrilega “santificazione” di “cose” che non sono Dio: oggetti, pensieri, ideologie, teologie deviate dalla Parola, patrie, guerre bellezze, intelligenze…Nulla è Dio. Solo Dio Padre è Dio.
Ed è splendido anche invocare che “venga il suo regno”. Infatti non si può dire che è già venuto compiutamente. Quindi non è possesso e prerogativa di nessuno. Tutti siamo per strada. Lo Spirito sta conducendo le Chiese (tutte!) e l’intera umanità alla piena conoscenza e comunione con il Regno di Dio. E tale venuta del Regno sarà piena non perchè noi ci arriveremo, ma appunto perchè il Regno verrà, in pienezza, alla fine dei tempi, di cui ora è l’ultima ora, anche se lunga, perchè nulla di più grande e profondo e potente può verificarsi di quello che si è compiuto con la venuta del Figlio di Dio, che ritornerà glorioso.
I vers.3-4 sono la nostra “vita cristiana”, la nostra vita secondo il Vangelo di Gesù. Nutriti ogni giorno del pane necessario. E Lui solo sa ciò di cui abbiamo bisogno per il nostro “esodo” che si compirà a Gerusalemme nella Pasqua di Gesù alla quale siamo ammessi a partecipare. Un camminno fatto di perdono, e della dilatazione senza fine della potenza del perdono. Un perdono a priori e incondizionato! Lo vedremo bene più avanti! E infine la richiesta che Dio Padre non ci abbandoni nel tempo della prova, e impedisca che cadiamo. Alla lettera questo versetto si potrebbe rendere:”…e, nella tentazione, fa’ che non cadiamo”.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Il contesto è molto diverso da quello di Matteo. Là si è all’inizio del ministero di Gesù, all’interno del discorso della montagna; qui Gesù ha già indurito il suo volto verso Gerusalemme. Inoltre in Matteo è Gesù che prende l’iniziativa di insegnare questa preghiera, qui è in risposta alla richiesta di un discepolo, come se avesse aspettato che a partire dalla frequentazione alla sua preghiera, fiorisse questa domanda.
Il fatto che non si citi né il luogo né il discepolo, favorisce ciascuno a pensarsi quel discepolo e come a un certo punto tale domanda possa fiorire nel suo cuore. Si può inoltre notare come in questo viaggio per Gerusalemme, prima di Gerico di norma non si citano i nomi dei luoghi, forse per rendere più evidente che è il cammino a cui tutti i discepoli sono chiamati, in ogni tempo e in ogni luogo.
La preghiera di Gesù è molto evidenziata nel Vangelo di Luca, a volte in corrispondenza a momenti importanti. E’ come se apparisse il sostegno di tutto, dello stesso mandato dei discepoli che abbiamo visto nei giorni precedenti. All’orto del Getsemani la preghiera di Gesù raggiungerà il suo vertice; e lì con forza, accanto ad essa, egli richiederà anche la preghiera dei discepoli.
L’accenno a Giovanni che ha insegnato ai suoi discepoli a pregare vuole sottolineare il legame tra la preghiera e il discepolato. La grande novità che introduce Gesù è che con lui il discepolato è per l’accesso alla condizione di figli, per cui la preghiera è una preghiera filiale, e la prima parola che insegna è “Padre”.
Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano – ricorda molto il cammino dell’esodo nel deserto dei figli di Israele, nutriti, ogni giorno, per quel giorno, per mezzo della manna. Ed in effetti qui la preghiera è tutta interna a questo viaggio del grande esodo di Gesù che si compirà a Gerusalemme.
Anche se l’inizio del capitolo 11 dà l’idea di uno stacco, questo testo appare molto collegato a ciò che ha preceduto, al modo come Gesù ha inviato i suoi discepoli, e alla lode fatta a Maria nel brano di ieri. Si può dire che i discepoli, che erano stati esortati a non prendere alcunché di proprio per il viaggio, qui non hanno parole proprie per la preghiera, non hanno una preghiera propria; ma la ricevono dal loro Signore.
“Perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore”. La traduzione è ambigua. Non si capisce se “perché…” è finale o causale. Alla lettera il testo dice: “e infatti noi perdoniamo…” (modo indicativo). Sembra assurdo, ma qui possiamo dire che Dio è immagine dell’uomo. L’esperienza che l’uomo fa di perdonare viene applicata a Dio. L’immagine di Dio come padre che perdona ce l’abbiamo dentro, è di tutti, è nel cuore di tutti, perché il perdono è una delle esperienze più belle della nostra vita. Quando diciamo che Dio è amore, è perché facciamo concreta esperienza della bellezza dell’amore, sia pure fragile, ferito, limitato, nella nostra vita. Certo che poi Dio ci trasporta ben oltre la nostra esperienza, con un dono e quindi anche delle esigenze inimmaginabili. Però il punto di partenza è dentro di noi. Perciò tutti ci possiamo ritrovare nel Vangelo. Non è forse questo il senso dell’incarnazione?