Quando l’ho conosciuto era già assediato dalla malattia: a scuola stava quasi sempre disteso su una brandina da mare; a Messa sedeva su una poltrona, spesso con il bambino più piccolo in braccio. Così, andando o tornando da Roma dove studiavo – e allora dell’Autosole c’erano solo pochi pezzi – deviavo con la motocicletta verso il Mugello, e poi su a Barbiana. Il programma era fisso: “Che cosa hai sentito all’università? Bene, raccontalo anche a noi!” Si doveva saper trasmettere ogni cosa! Del resto, la prima volta che ero entrato in casa, ascoltavano da vecchi dischi a 78 giri la Quinta di Beethoven, e seguivano la musica sugli spartiti, e lui continuamente faceva interrompere il disco e spiegava. Così si doveva parlare di filosofia, o di teologia, ma anche di quello che stava succedendo al Concilio.
E il vero problema era il linguaggio. Come il disco della quinta, anch’io venivo continuamente interrotto, perchè una parola era inutilmente complicata, e l’altra non era capace di esprimere bene quello che si voleva trasmettere. Ogni parola una ricerca, e sempre in due direzioni: il diritto di capire anche da parte del più piccolo e del più povero; e la necessità di trasmettere tutto in modo fedele. Insomma, una faccenda piuttosto complicata. Certo più difficile degli esami all’università dei Gesuiti.
Mi affidavo al Santo che don Lorenzo aveva “inventato” e messo come vetrata in una finestra della chiesa: il Santo Scolaro. Perchè, sì, dovevo fare il maestro di passaggio per i suoi ragazzi. Ma quello che veramente mi portava a Barbiana era la voglia di essere anch’io tra gli scolari del “Priore”, in questo appassionato esercizio di consegna della parola, una propedeutica straordinaria dell’incontro con la Parola di Dio. Questo era uno dei postulati di Barbiana: piantarla di parlare dei poveri e dare la parola ai poveri. Scuola laicissima e insieme cristianissima, quella di Barbiana. La scuola come Scuola del Vangelo e il Vangelo come scuola della vita. E tutta la vita dentro a questa scuola. La parte ebraica del suo patrimonio genetico gli dava la struttura mentale e la capacità pedagogica dei grandi rabbini. La sua tradizione famigliare era il segreto della sua affettuosità burbera e appassionata. Il suo passato di pittore guidava il suo sguardo interiore per cogliere l’importanza anche del più piccolo frammento. Per la gente di Barbiana, e per quelli che erano i suoi ragazzi, il cuore di tutta la vicenda è stato l’Amore. Quello che un prete in punizione, che aveva accettato tutto con mitezza assoluta, ha saputo e voluto riversare nei suoi figli, con la determinazione e la passione di un martire.
Giovanni Nicolini

Fonte: La Cittadella di Mantova del 14 giugno 2007 "Cosa resta di Don Milani 40 anni dopo"