Lercaro_2Di Giacomo Lercaro
Da “Il Foglio” – 25 Luglio 2013

Il 6 dicembre 1962, nel corso della Congregazione generale 35 del Concilio Vaticano II che si era aperto l’11 ottobre, l’arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro, che all’assise sinodale aveva voluto come perito di fiducia don Giuseppe Dossetti, pronunciò l’intervento che qui ripubblichiamo, dedicato a “Chiesa e povertà”. Si tratta di un testo programmatico, dal sapore profetico, che suggeriva di considerare “unico tema di tutto il Vaticano II” quello della povertà, nel suo stretto rapporto con la riforma delle istituzioni ecclesiali. Punto di riferimento per la componente progressista dei padri sinodali, l’intervento di Lercaro resterà come una pietra miliare, citato e ripreso innumerevoli volte, nel dibattito ecclesiale di marca progressista dei decenni del post Concilio.

La maternità della Chiesa è mysterium magnum. Ed io vorrei insistere perché di questo mistero il Concilio ponesse in evidenza un aspetto che è eterno ed insieme attualissimo: la generazione alla grazia dei poveri e degli umili. Già altri hanno chiesto che tra i temi che con priorità si debbono porre nell’agenda del Concilio sia quello della evangelizzazione dei poveri.
E’ giusto e doveroso. Ma io vorrei dire di più: non è tanto un nuovo tema, sia pure importante da aggiungere ma in un certo senso è la presa di coscienza del tema generale e sintetico di questo Concilio. E’ stato detto che il Vaticano II è il Concilio soprattutto De Ecclesia. E allora si può anche precisare che il Concilio De Ecclesia in concreto — rispetto a quest’ora dell’umanità e a questo grado di sviluppo della coscienza cristiana — deve essere il Concilio della Chiesa, particolarmente e soprattutto la Chiesa dei poveri.

Quindi più che proporre un tema aggiuntivo vorrei proprio in questa conclusione della sessione rivolgere a me stesso una domanda: che cosa è mancato al Concilio sinora se non proprio questo: cioè l’esplicita consapevolezza che questo è in certo senso l’elemento di sintesi, il punto di chiarificazione e di coerenza di tutti gli argomenti sinora trattati e di tutto il lavoro che dovremo svolgere.

Questa sessione non finisce certo senza risultati. Anzi. Anche se non si promulgherà nessuna costituzione e decreto, il Concilio ha lavorato molto, nel complesso ha lavorato bene, superando le difficoltà inevitabili degli inizi e correggendo l’impostazione di fondo della fase preparatoria non in tutto forse pienamente adeguata, esprimendo degli orientamenti e dei criteri la cui positività e fecondità si rivelerà di certo nel futuro. Risultati non trascurabili, anzi forse grandi, di cui noi dobbiamo essere grati al Signore che dovremo attestare, ora ritornando alle nostre chiese, ai nostri sacerdoti e fedeli. Eppure tutti sentiamo che al Concilio sinora è mancato qualche cosa: tanti elementi preziosi, sono rimasti un po’ frammentari, sembravano non avere ancora trovato un principio unificatore e vivificante.
Dove cercheremo questo impulso vitale, questa anima, diciamo veramente questa pienezza dello Spirito?
Se non proprio in questo: in un atto di sovrannaturale docilità di ciascuno di noi e del Concilio tutto all’indicazione che sembra farsi sempre più chiara e imperativa: questa è l’ora dei poveri, dei milioni di poveri che sono su tutta la terra, questa è l’ora del mistero della Chiesa madre dei poveri, questa è l’ora del mistero di Cristo soprattutto nel povero.

I. Anzitutto anch’io insisto su quanto ha chiesto l’em.mo card. Suenens e sulle precisazioni fatte ieri dal cardinale Montini: circa il fine di questo Concilio, l’agenda dei lavori futuri, l’ordine e la concentrazione degli argomenti e soprattutto circa la necessità di enucleare una dottrina De ecclesia.
Occorre una dottrina De Ecclesia, capace di penetrare più a fondo, oltre i lineamenti dell’ordine giuridico-ecclesiastico, ai quali si arrestano sinora molte delle nostre trattazioni e direttive. Se una conclusione possiamo trarre alla fine di questa sessione del nostro Concilio è proprio questa: due mesi di fatica e di veramente generosa, umile, libera e fraterna ricerca, con l’assistenza dello Spirito santo, ci hanno portati a comprendere meglio e tutti assieme quel che il Concilio Vaticano II deve proporre agli uomini del nostro tempo, per illuminare con una luce di verità e di grazia i loro cuori; quel che dobbiamo proporre è l’intimo mistero della Chiesa, come il “grande sacramento” del Cristo, del Verbo di Dio, che si rivela, che abita, che vive, e che opera fra gli uomini.

II. Ma lo scopo più proprio di questo mio intervento è di richiamare l’attenzione ancor più di quanto non sia già stato fatto, su un aspetto di questo mistero di Cristo nella Chiesa che mi sembra non solo perennemente essenziale ma anche di suprema attualità storica.
Intendo dire: il mistero di Cristo nella Chiesa sempre è stato ed è, ma oggi è particolarmente il mistero di Cristo nei poveri: in quanto la Chiesa, come ha detto il santo padre Giovanni XXIII, se è la Chiesa di tutti, oggi è specialmente “la Chiesa dei poveri”.
Leggendo l’indice analitico dei diversi schemi che ieri ci è stato distribuito, mi ha colpito questa carenza: tutti gli argomenti che sono stati proposti, o che saranno proposti, al nostro esame e alla nostra discussione, non sembrano avere tenuto conto — nel modo cosciente ed esplicito e nella misura storicamente proporzionata che sarebbe stata necessaria — di questo aspetto essenziale e primario del mistero di Cristo: aspetto preannunciato già dai profeti come segno inconfondibile della consacrazione e missione messianica di Cristo; aspetto magnificato dalla stessa madre del Salvatore al momento della incarnazione del Verbo; aspetto promulgato dalla nascita, dall’infanzia, dalla vita nascosta e dall’insegnamento pubblico di Gesù; aspetto che costituisce la legge costituzionale del regno di Dio; aspetto che condiziona tutto il flusso della grazia e della vita della Chiesa, dalla comunità apostolica sino a tutte le grandi ore di maggior e miglior rinnovamento interno e di conquista esterna della stessa Chiesa; aspetto finalmente che sarà sanzionato per l’eternità, con il premio o il castigo, nel secondo e glorioso avvento del Figlio di Dio alla fine del tempo e della storia.

III. Perciò mi sembra dovere nostro in questa conclusione della prima tappa del nostro Concilio riconoscere e proclamare solennemente: noi non faremo il nostro dovere, non sapremo intendere con animo aperto la volontà di Dio e l’attesa degli uomini su questo Concilio, se non metteremo al centro a un tempo del suo insegnamento dottrinale e della sua opera di rinnovamento, il mistero di Cristo nei poveri, l’annunzio dell’evangelo ai poveri. Questo infatti è il dovere più chiaro, più concreto, più attuale, più imperativo di un’età in cui, più che in qualunque altra, i poveri sembrano non essere evangelizzati e in cui i loro cuori sembrano alienati ed estranei al mistero di Cristo e della sua Chiesa; di un’età in cui per altro la coscienza dell’umanità interroga e scruta con ansiose e quasi drammatiche domande il perché della povertà e il destino dei poveri: dei singoli poveri e degli interi popoli poveri, che prendono ora una consapevolezza nuova dei loro diritti; di un’età in cui la povertà dei moltissimi (due terzi dell’umanità) è offesa dal confronto con la smisurata ricchezza dei pochi, e in cui la povertà più che mai è temuta e sfuggita dall’istinto delle moltitudini, dalla carne e dal sangue dell’uomo.

IV. Ma richiamando – come altri del resto ha già fatto – il problema dell’evangelizzazione dei poveri, io non intendo soltanto aggiungere un altro tema all’elenco già così tanto abbondante dei temi che il Concilio dovrebbe affrontare. Mi sembra di dovere anzi dire proprio questo: che l’esigenza più profonda e più vera del nostro tempo, compresa la nostra somma speranza di promuovere l’unità di tutti i cristiani, non sarebbe soddisfatta ma elusa se il problema dell’evangelizzazione dei poveri nel nostro tempo, dovesse essere affrontato dal Concilio come un tema aggiuntivo dopo tutti gli altri.
Non si tratta di un qualunque tema, ma in un certo senso dell’unico tema di tutto il Vaticano II.
Se, come è stato detto più volte anche ieri in questa aula, il tema di questo Concilio è la Chiesa, si può e si deve precisare che la formulazione più conforme alla verità eterna del vangelo e insieme più adeguata alla situazione storica del nostro tempo è proprio questa: il tema del Concilio è la Chiesa, in quanto particolarmente Chiesa dei poveri, di tutti i milioni e milioni di singoli uomini poveri, e collettivamente dei popoli poveri dì tutta la terra.

V. Precisato in questi termini l’oggetto proprio e immediato di questo Concilio, mi sia consentito ora di fare alcune proposte concrete per il lavoro da svolgere, sin da ora, in vista della futura sessione.
1) Che nel lavoro da svolgere dal Concilio d’ora in poi trovi, non soltanto un posto, ma vorrei dire il primo posto, la formulazione della dottrina evangelica della divina povertà del Cristo nella Chiesa: il mistero dell’elezione divina che ha scelto la povertà come un segno e un modo – “sacramentum magnum, dico, in Cristo et in ecclesia” – come un segno e un modo preferenziale di presenza e di forza operativa e salvifica del Verbo incarnato tra gli uomini.
2) Che parallelamente nel nostro lavoro trovi posto e giusta priorità la formulazione della dottrina evangelica della eminente dignità dei poveri, come membra elette della Chiesa, perché sono le membra nelle quali a preferenza il Verbo di Dio incarnato nasconde il fulgore della sua gloria che si rivelerà solo alla fine del tempo.
3) Che chiarite solidamente queste dottrine essenziali, in tutto il resto dei nostri lavori – e particolarmente per la trattazione di tutti i temi dottrinali, secondo la nuova impostazione invocata dai più che deve essere data agli schemi delle costituzioni dogmatiche – si tenga sempre presente e ci si sforzi di mettere in chiaro la connessione ontologica strettissima che esiste fra la presenza di Cristo nei poveri e le altre due realtà più profonde di tutto il mistero di Cristo nella Chiesa: cioè la presenza di Cristo nell’eucaristia che fonda e costituisce la Chiesa, e la presenza di Cristo nella sacra gerarchia che ammaestra e ordina la Chiesa. In fondo vorrei dire che non si tratta che di tre aspetti dell’unico mistero e che non si può dire che cosa è la Chiesa, se non si considerano congiuntamente tutti i tre aspetti a un tempo e se non si imposta così globalmente ogni problema: per esempio quello della presenza della rivelazione nella Chiesa, o quello della trasmissione e interpretazione della rivelazione, o quello dell’unità della Chiesa, o quello dei membri della Chiesa, o quello della sua struttura gerarchica, del rapporto tra primato e collegio episcopale o quello tra gerarchia e laicato, ecc.;
4) Che parallelamente in tutta l’altra parte del nostro lavoro, cioè per ogni problema pratico di rinnovamento delle istituzioni ecclesiastiche e dei modi di evangelizzazione, si tenga sempre presente e ci si sforzi di mettere in chiaro da una parte la strettissima connessione storica tra il riconoscimento sincero e coerente dell’eminente dignità del povero nel regno di Dio e nella Chiesa e dall’altra la nostra individuazione realistica delle possibilità e degli ostacoli dell’evangelizzazione nel nostro tempo, come dei modi e delle forme nuove necessarie e feconde dell’annunzio agli uomini della nostra età. Non è necessario che giustifichi di più questo asserto.
6. Può solo bastare che proponga conchiudendo – e a modo di riscontro pratico di tutte le affermazioni sinora fatte – un semplice elenco dei temi più indispensabili e più decisivi che i nostri decreti di riforma dovranno affrontare con sobrietà e misura, ma senza nessuna timidità e compromessi:
a) la delimitazione dell’impiego dei mezzi materiali, specialmente di quelli meno poveri secondo l’espressione «non ho né oro né argento, ma quello che ho te lo dò», nell’organizzazione ecclesiastica e nelle attività apostoliche;
b) la definizione generale di un nuovo stile e di un decoro delle autorità ecclesiastiche che non contrasti la sensibilità degli uomini del nostro tempo e specialmente dei poveri e che non ci faccia sembrare ricchi, mentre nella grande maggioranza non lo siamo;
c) la fedeltà non solo individuale ma anche comunitaria alla santa povertà delle famiglie religiose;
d) la liquidazione degli avanzi storici di strutture patrimoniali che, mentre non sono ormai di vera utilità per la Chiesa e le sue opere, ingombrano come residui di un feudalesimo ormai del tutto tramontato, ecc..
Se noi faremo tutto questo avremo oltretutto fatto tesoro del frutto più prezioso delle nostre fatiche di questa prima sessione: cioè avremo compreso il senso positivo e valido che vi è stato nel dibattito fondamentale di questi due mesi.
Non è stata né inutile né senza motivo la discussione che ci ha tanto impegnato tra quanti più hanno insistito sulla necessità di proporre anzitutto una precisa enunciazione della verità dottrinale e quanti invece più hanno insistito sulla necessità di tenere conto di esigenze pastorali e di opportuni adattamenti ai tempi, ai luoghi, alla mentalità degli uomini e delle genti.
Non si tratta, invero, né di togliere nulla alla proclamazione della verità eterna e neppure di accontentarsi di adattamenti soltanto formali e verbali.
7. Se noi saremo docili al richiamo che la divina provvidenza oggi ci fa per ‘affermare e perseguire un primato dell’evangelizzazione dei poveri, non sarà difficile, con l’aiuto dello Spirito del Signore e la protezione di Maria madre di Dio, che noi troviamo, per tutti i problemi, dottrinali e pratici, un modo «autentico» di presentare l’evangelo di Dio eterno ed immutabile integralmente, senza alcuna reticenza o attenuazione e insieme di presentarlo nella forma che più facilmente renda una tutta la cristiana famiglia, come il Padre e il Cristo sono una cosa sola e più accessibile al cuore e alla speranza ‘di tutti gli uomini di questo tempo e soprattutto dei poveri nella Chiesa di Cristo, che essendo ricco per noi si è fatto povero per farci ricchi della sua grazia e della sua gloria.