46 Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, 47 lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.
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E’ bene prestare attenzione alla prima espressione del nostro testo, “ogni giorno”, perché ci avverte che stiamo venendo a conoscere il volto della vita quotidiana della piccola comunità dei credenti in Gesù. Ed è prezioso per noi, oggi, cogliere dopo tanto tempo – e questo è il “miracolo” perenne della Parola di Dio e la sua provocante attualità per noi e per il nostro tempo.
I nostri versetti sono una ripresa di cose già ascoltate dal testo precedente, con aggiunte preziose. La prima è la notizia della preghiera quotidiana nel tempio. Evidentemente non voleva essere una provocazione, né come tale era interpretata, ma il convincimento che Gesù non era “rottura” con la fede di Israele, ma se mai sua pienezza. Una pienezza che non ripudiava la fede dei padri, ma l’accoglieva.
E’ attenzione del nostro testo sottolineare l’unanimità dei discepoli. Possiamo chiederci quale significato possa avere per noi oggi questo abbinamento tra la frequentazione alla preghiera tradizionale di tutti e la novità della vita secondo l’insegnamento di Gesù. Mi limito a pensare che sia per noi un incitamento a non pensare che necessariamente il nuovo dono di Dio implichi il ripudio di tutto quello che l’ha preparato e accolto.
Questa frequentazione del tempio di Gerusalemme ci fa ricordare l’assiduità del Signore a questo stesso luogo, che peraltro oggi non c’è più. Mi chiedo se non ne possiamo trarre più in generale l’indicazione che forse converrebbe essere meno “severi censori” di quello che non è propriamente “nostro”, avendo quindi l’opportunità di accogliere e di comunicare con sincera simpatia il legame più che la rottura.
Ci possiamo domandare se non si tratti forse di due “fatti”, quando si parla dello “spezzare il pane” e di “prendere cibo”. E forse possiamo pensare che l’atto liturgico del pane avesse un suo seguito, una sua conseguenza, in quel “prendere il cibo con letizia e semplicità di cuore”. E possiamo quindi lasciarci visitare dall’avvertimento del legame sempre esigente tra la liturgia e la storia, dove la liturgia non è una specie di astrazione o di stilizzazione della storia, ma più profondamente e semplicemente il “principio” di una storia nuova: la “frazione del pane” come fonte di una comunione fraterna che implica la continuità tra quel “pane” condiviso e una storia più “fraterna” e quindi più “giusta”.
L’espressione che al ver.47 è resa in italiano con “godendo il favore di tutto il popolo”, alla lettera suona come “avendo grazia verso tutto il popolo”. Non penso ad una “correzione” del testo, ma a due possibili strati del suo significato. Mi chiedo cioè se, godendo il favore del popolo, in questo non manifestavano una “grazia”, cioè una divina potenza di testimonianza e di annuncio, come orizzonte di quello che si dice di seguito e cioè che “il Signore ogni giorno aggiungeva alla comu-nità quelli che erano salvati”. Qui si può notare che l’espressione “alla comunità” è una libera interpretazione di termini difficili da rendere in italiano: “in id ipsum” dice la versione latina. “alla realtà stessa” della nuova comunità? Una versione più sfumata può forse sottolineare che il “fatto umano” di numerose e incessanti nuove adesioni al gruppo dei discepoli di Gesù non era un fatto solo esterno, e non era appunto una “rottura”, come spesso si dà nelle nostre quotidiane vicende. Oggi mi capita di avvertire che se uno è “un dossettiano”, è meglio sospettarlo di eresia e di danno ecclesiale. S’intende, lo dico scherzosamente. E quietamente.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.