24 In quei giorni Ezechia si ammalò mortalmente. Egli pregò il Signore, che l’esaudì e operò un prodigio per lui. 25 Ma Ezechia non corrispose ai benefici a lui concessi, perché il suo cuore si era insuperbito; per questo su di lui, su Giuda e su Gerusalemme si riversò l’ira divina. 26 Tuttavia Ezechia si umiliò della superbia del suo cuore e a lui si associarono gli abitanti di Gerusalemme; per questo l’ira del Signore non si abbatté su di loro, durante i giorni di Ezechia.
27 Ezechia ebbe ricchezze e gloria in abbondanza. Egli si costruì depositi per l’argento, l’oro, le pietre preziose, gli aromi, gli scudi e per qualsiasi cosa preziosa, 28 magazzini per i prodotti del grano, del mosto e dell’olio, stalle per ogni genere di bestiame, ovili per le pecore. 29 Si edificò città; ebbe molto bestiame minuto e grosso, perché Dio gli aveva concesso beni molto grandi.
30 Ezechia chiuse l’apertura superiore delle acque del Ghicon, convogliandole in basso verso il lato occidentale della Città di Davide. Ezechia riuscì in ogni sua impresa. 31 Ma quando i capi di Babilonia gli inviarono messaggeri per informarsi sul prodigio avvenuto nel paese, Dio l’abbandonò per metterlo alla prova e conoscerne completamente il cuore.
32 Le altre gesta di Ezechia e le sue opere di pietà sono descritte nella visione del profeta Isaia, figlio di Amoz, nel libro dei re di Giuda e d’Israele. 33 Ezechia si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono nella salita dei sepolcri dei figli di Davide. Alla sua morte gli resero omaggio tutto Giuda e gli abitanti di Gerusalemme. Al suo posto divenne re suo figlio Manasse.
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Anche oggi ci viene regalata una Parola di grande luce, che illumina quello che in certo senso è sempre il “dramma” della nostra fede. Ezechia, nella sua storia sostanzialmente positiva e luminosa conosce incessantemente questa oscillazione tra il dono di Dio e la nostra tendenza profonda ad impossessarcene. Quando stravolgiamo il dono facendone nostra proprietà precipitiamo nella nostra fragilità. La connessione tra fede e povertà è assoluta! Proviamo a cogliere qualche scintilla della Parola che oggi ce ne parla.
Il ver.24 nella sua semplicità e nettezza è un paradigma semplice e prezioso della fede. L’esistenza umana è fragile, e sostanzialmente esposta alla fragilità e alla morte: “Ezechia si ammalò mortalmente”. La sua preghiera viene esaudita e Dio “operò un prodigio per lui”. Noi siamo tutti dei “salvati”! Noi viviamo del dono di Dio! Questa è la fisionomia fondamentale dell’esistenza secondo la fede ebraico-cristiana! Ma, dice il ver.25, “Ezechia non corrispose ai benefici a lui concessi, perché il suo cuore si era insuperbito”: questa è la “rapina” che si commette quando il dono divino diventa nostro possesso, nostro merito, nostra capacità, o anche semplicemente “attributo” della nostra natura. L’ira divina è l’abbandono da parte di Dio e il nostro precipitare inevitabile, direi “naturale”, nella nostra reale condizione. “Tuttavia Ezechia si umiliò della superbia del suo cuore” e quindi “l’ira del Signore non si abbattè” su di lui e sugli abitanti di Gerusalemme. Tale è dunque quella che chiamavo prima l’ “oscillazione” tra dono e rapina, tra il povero che tutto riceve, e il ricco che in realtà è ladro nei confronti di Dio e anche ladro del suo prossimo con il quale non condivide quello che non è suo ma che Dio gli ha dato perché nei sia custode e comunicatore.
La vicenda si ripete. Ezechia conduce un’esistenza estremamente positiva e ricca perché “Dio gli aveva concesso beni molto grandi” (ver.29). Ma quando i suoi potenti vicini stranieri “gli inviarono messaggeri per informarsi sul “prodigio (!!) avvenuto nel paese, Dio lo abbandonò per metterlo alla prova e conoscerne completamente il cuore”. Sappiamo che Ezechia cedette alla tentazione di attribuire a sé e non al Signore tutto quello che gli era accaduto. Secondo il testo di 2Re20 egli mostra imprudentemente, forse per vantarsene, le ricchezze ricevute da Dio, ma questo esporrà tale tesoro alla rapina nemica.
In ogni modo egli viene ricordato positivamente e per “le sue opere di pietà”. Penso che sia facile per noi ritrovare in questa vicenda molti lati più o meno nascosti della nostra personalità e della nostra vita di poveri peccatori amati da Dio.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Anche in questo re buono, bravo, vediamo quegli alti e bassi che caratterizzano la vita di tutti noi. Oggi si dice che il cuore di quel re “si era insuperbito”: si nota in questa parola (con una etimologia grossolana) l’avverbio super: mettersi sopra agli altri, considerarsi super… Ma poi il re “si umiliò”: anche qui ci aiuta l’etimologia, poiché il termine deriva – se non sbaglio – da “humus”, terra. Quindi, rimettersi giù, sulla terra, accanto a tutti gli altri con cui condividiamo le bellezze e le fatiche del cammino. – Al termine del brano troviamo quella formula abituale, ma così bella che la comunità primitiva la adottò per indicare la morte: “si addormentò con i suoi padri”…