12 È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto e son convinto che egli è capace di conservare il mio deposito fino a quel giorno. 13 Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. 14 Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi.
15 Tu sai che tutti quelli dell’Asia, tra i quali Fìgelo ed Ermègene, mi hanno abbandonato. 16 Il Signore conceda misericordia alla famiglia di Onesìforo, perché egli mi ha più volte confortato e non s’è vergognato delle mie catene; 17 anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché mi ha trovato. 18 Gli conceda il Signore di trovare misericordia presso Dio in quel giorno. E quanti servizi egli ha reso in Efeso, lo sai meglio di me.
Seleziona Pagina
E’ importante fissare con attenzione quanto Paolo dice al ver.12:”E’ questa la causa dei mali che soffro…” Per quale causa egli soffre? Perchè, diceva il ver.11, Paolo è stato “costituito araldo, apostolo e maestro” del Vangelo. Io penso cioè che non si debba attribuire la sofferenza – qui concretamente espressa dalla sua condizione di prigioniero – solo al dato esterno della detenzione, ma, penso, al dato interiore della sua assunzione del mistero di Gesù Cristo. La concreta vicenda della prigionìa, che forse terminerà con il martìrio, celebra la partecipazione che il discepolo del Signore è chiamato a vivere e a condividere con il Cristo stesso. Tale diventa la spiegazione-illuminazione dei “mali” che ogni discepolo di Gesù soffre. Il segreto, l’intima ragione della sofferenza è la comunione-partecipazione alla Pasqua del Signore, che segna fin dal Battesimo l’intima realtà della condizione cristiana. La Pasqua è cioè la “vocazione” profonda della vita cristiana.
Per questo non ce se ne deve “vergognare”; l’Apostolo ha già scritto questa parola al ver.8, e ancora la riprende al ver.16 del nostro testo. Il verbo esprime bene l’esperienza di minorità, di sconfitta mondana, di esposizione al ludibrio che accompagna una vita fedele al Signore Gesù, il grande perdente agli occhi del mondo. Per questo il forte invito rivolto a Timoteo è quello di “prendere come modello” per sè la vicenda del suo maestro e padre. Questo in fondo è il tratto essenziale di ogni comunicazione del mistero cristiano: quello di poter celebrare in se stessi la Persona e la Pasqua di Gesù! Questo mi sembra il senso ultimo di quel “deposito” che deve essere conservato “fino a quel giorno”; ma è Gesù stesso che, secondo il ver.12,”è capace di conservare” tale deposito fino alla fine, cioè fino a quando il discepolo possa portare a pienezza la sua partecipazione alla Pasqua. Timoteo può mettersi sulla stessa strada – o meglio continuare a camminare in essa – custodendo “le sane parole” che ha udito dall’Apostolo. Fede e carità di Cristo, a noi donate insieme alla Parola e attraverso di essa, sono la forza di questa vita fedele. Il ver.14 precisa che questa è l’opera dello Spirito Santo “che abita in noi”. La vita cristiana è la vita del Cristo in noi! E’ il compiersi in ciascuno di noi del mistero del Figlio e del suo sacrificio d’amore.
Possiamo ricevere le parole dei vers.15-18 come il “giudizio” che il Vangelo esprime nella nostra vita. Quelli dell’Asia che hanno abbandonato Paolo, si sono in questo modo sottratti alla loro partecipazione al mistero del Signore. Onesiforo e la sua casa incontreranno la misericordia divina “in quel giorno”, perchè hanno condiviso la sofferenza di Paolo, e in tal modo hanno celebrato in se stessi la passione del Signore. Questo, mi pare, non tanto perchè Paolo è “l’Apostolo”, quanto perchè chiunque celebra la passione del Signore nella sua vita diventa espressione viva del giudizio che l’Amore di Dio manifesta, e quindi domnda critica che il Signore del Vangelo rivolge ad ogni esistenza.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Paolo afferma con sicurezza che il motivo dei suoi patimenti è il Vangelo, di cui è stato posto araldo, apostolo e maestro, ma non se ne vergogna perchè sa a chi ha creduto e la sua potenza. Come i suoi patimenti si innestano nei patimenti del Cristo, così il suo non vergognarsi ha il suo fondamento in colui che non si è vergognato di chiamarci suoi fratelli. E’ per questo che Paolo ha potuto chiedere a Timoteo di patire anche lui (con il Vangelo/con Paolo) e di non vergognarsi; ed è per questa catena di comunione che anche Onesiforo non si vergogna.
La lettera di Pietro più volte ci interpella a verificare il motivo del nostro patire. Peraltro la domanda sul “motivo” emerge nella vita di ogni uomo e di ogni popolo (certamente molto qui). Questo versetto lo possiamo forse accogliere anche come l’annuncio della possibiltà di “convertire” a questo grande motivo ogni patire.
Per due volte si parla di deposito, parola che avevamo già incontrato nellla prima lettera. Forse si lega ad una abitudine invalsa di potere affidare ad un altro “fidato” i propri beni (si può ricordare a questo proposito il deposito fatto da Tobi).Nel testo di oggi, la prima volta sembrerebbe che è Paolo che “ha depositato” la sua stessa persona, la sua intera vita, nel Cristo che ha la capacità di conservare il deposito; la seconda volta sembrerebbe che il deposito è la persona stessa del Cristo che viene “depositata” in noi e che noi possiamo conservare per mezzo dello Spirito Santo. Si potrebbe quindi parlare di un reciproco deposito che è reso possibile dalla misericordia di Dio.
Il vergognarsi è in molti salmi unito all’essere confusi; il vergognarsi dei patimenti di Cristo dei fratelli è causa della nostra confusione, dello sviamento della nostra vita. Onesiforo andando a Roma ha cercato con premura Paolo, e l’ha trovato. I
mpressiona il parallelo con la parola del Signore “chi cerca trova”, che induce a tenere unito questo tipo di ricerca alla ricerca della fede; ed in effetti Paolo riprende lo stesso verbo pregando perchè Onesiforo trovi misericordia presso Dio in quel giorno.
Leggo con frutto i commenti precedenti e ho poco da aggiungere. Mi è piaciuta la figura di questo Onesiforo che non si vergogna della condizione di prigionia e sofferenza Paolo e invece di abbandonarlo va, briga, lo cerca con premura, lo serve e lo conforta con ogni sollecitudine.
E’ proprio la debolezza, il bisogno del fratello uniti alla sua fede, la sua schiettezza, la sua carità, il suo essere araldo, apostolo e maestro del Vangelo che ne fanno una limpida figura di Gesù. Perciò Onesiforo non ha dubbi su quello che deve fare.