9 Febbraio 2003
V DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO (ANNO B)
Marco 1,29-39
In quel tempo, 29 Gesù, uscito dalla sinagoga, si recò in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e di Giovanni. 30 La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. 31 Egli, accostatosi, la sollevò prendendola per mano; la febbre la lasciò ed essa si mise a servirli.
32 Venuta
la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli
indemoniati. 33 Tutta
la città era riunita davanti alla porta. 34 Guarì molti che erano afflitti da
varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare,
perché lo conoscevano.
35 Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. 36 Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce 37 e, trovatolo, gli dissero: «Tutti ti cercano!». 38 Egli disse loro: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
39 E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
1) E, usciti dalla sinagoga, si recarono subito in casa di Simone (testo CEI): il Signore Gesù, dopo aver insegnato nella sinagoga, esce ed entra subito nella casa di Simone, passa immediatamente dalla sinagoga alla dimensione più familiare della gente, quasi a significare quanto sia unito per lui l’annuncio del vangelo e l’accoglienza delle persone, specialmente dei piccoli.
2) La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei: l'immediatezza con cui i discepoli rispondono alla visita di Gesù, parlandogli di chi è in difficoltà, mostra quanto il Signore sia “l’atteso”, colui dal quale dipende la vita di ciascuno e quella di chi si ama.
3) Egli, accostatosi, la sollevò prendendola per mano; la febbre la lasciò: Gesù non delude la speranza di presenti e non solo si avvicina a questa donna ammalata, ma entra in contatto con lei, prendendola con forza per mano; per questo il male la lascia.
4) …ed essa si mise a servirli: l’incontro con il Signore e la salvezza da Lui ricevuta spinge alla restituzione del dono nel servizio ai fratelli.
5) Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati; tutta la città era riunita davanti alla porta: la condizione di buio e di malattia riguarda tutti; la città intera è raccolta attorno al Signore, desiderosa d'incontrarlo perché bisognosa delle sue cure.
6) Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava: Gesù conclude e precede il giorno pregando il Padre, perché ogni incontro con gli uomini sia ricevuto dal Padre e a Lui riconsegnato.
7) Tutti ti cercano: tutti, con Simone, cercano il Signore, come pecore che hanno riconosciuto e ascoltato il loro pastore buono (cfr. Gv 10,4: le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce).
8) Egli disse loro: andiamocene altrove, per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto (lett. uscito): tutto ciò che il Signore Gesù compie ha come fine la predicazione del vangelo in ogni luogo; per questo egli è uscito dal Padre (cfr. Gv 17,8: le parole che hai dato a me io le ho date a loro).
9) E andò per tutta la Galilea predicando nelle
loro sinagoghe e scacciando i demoni: come all’inizio del brano evangelico,
Gesù ricomincia il viaggio del vangelo, annunciato prima con la sua parola
nella sinagoga e portato poi, con la sua persona, fin dentro al cuore
dell’umanità più ferita.
Giobbe
7,1-4.6-7
Giobbe parlò e disse: | «1 Non ha forse un duro lavoro l’uomo
sulla terra | e i suoi giorni non sono come
quelli d’un mercenario? | 2 Come lo
schiavo sospira l’ombra | e come il mercenario
aspetta il suo salario, | 3 così a me son
toccati mesi d’illusione | e notti di dolore
mi sono state assegnate. | 4 Se mi corico
dico: “Quando mi alzerò? ”. | Si allungano le
ombre e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. | 6 I miei giorni
sono stati più veloci d’una spola, | sono
finiti senza speranza. | 7 Ricordati che
un soffio è la mia vita: | il mio occhio non
rivedrà più il bene».
1) Non ha forse un duro lavoro (Ebr. servizio militare; LXX prova) l’uomo sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? Giobbe apre gli occhi sulla realtà della vita, caratterizzata da prove molto concrete, come i ritmi pressanti del lavoro e la preoccupazione del guadagno. La durezza di questa condizione, che differenzia il servizio di Giobbe da quello di Paolo e della suocera di Pietro, sta nel non riuscire a trovare un senso di esso e nella prospettiva della fine di tutto: una sorte penosa è disposta per ogni uomo, un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita dal grembo materno al giorno del loro ritorno alla madre comune (Sir 40,1).
2) A me son toccati mesi d’illusione e notti di dolore mi sono state assegnate: la vita terrena è fatta di precarietà e appare inutilmente mascherata da speranze e aspettative, che svaniscono di fronte alla prova del dolore; infatti - si chiede Giobbe - se il male colpisce anche il giusto, che senso può avere l’esistenza?
3) Se mi corico, dico: “Quando mi alzerò?”: nella sofferenza Giobbe percepisce la lunghezza di un tempo che sembra non passare mai.
4) I miei giorni sono stati più veloci di una spola... Ricordati che un soffio è la mia vita: la stessa sofferenza porta Giobbe a sentire il tempo anche come rapidissimo. Tuttavia egli si rivolge a Dio ricordandogli il ruolo di padre e creatore, custode dell'uomo (v. 20) e, insieme, la propria fragilità. In una situazione di totale sconforto, solo in Dio egli trova consolazione e sollievo: io grido a te, Signore, dico: sei tu il mio rifugio, sei tu la mia sorte nella terra dei viventi (Sal 141,6).
La sofferenza trova significato pieno nella passione e morte di Gesù. In Lui le sofferenze diventano preziose, come dice Santa Teresina: “Più il patire è intimo, meno appare agli occhi delle creature, più vi rallegra, mio Dio; ma se, cosa impossibile, doveste Voi stesso ignorare la mia sofferenza, sarei ugualmente felice di possederla, se per mezzo di questa potessi impedire o riparare un solo peccato contro la Fede. L’esercizio della pazienza di fronte alle prove diventa strumento per la trasformazione del cuore: cfr. Gc 1,2-4 (Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla).
1
Corinzi 9,16-19.22-23
Fratelli, 16 non è per me un vanto predicare il vangelo; è per me un
dovere: guai a me se non predicassi il vangelo! 17 Se lo faccio di mia
iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa,
è un incarico che mi è stato affidato. 18 Quale è dunque la mia ricompensa?
Quella di predicare gratuitamente il vangelo senza usare del diritto
conferitomi dal vangelo.
19 Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. 22 Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. 23 Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro.
1) Non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere: l’Apostolo non annuncia il vangelo per riceverne gloria, ma per obbedire ad una necessità che lo sovrasta; infatti, non di sua volontà ha scelto di fare ciò, ma per volontà di colui che sulla via di Damasco gli aveva detto: Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto (At 26,16).
2) Qual è dunque la mia ricompensa?: Paolo si fa questa domanda, perché nei versetti che precedono (7-14) ha cercato di spiegare che l’operaio ha diritto alla sua mercede (cfr. anche Mt 10,10). La vera ricompensa è la libertà di figlio di Dio, che gli consente di predicare senza avvalersi del vantaggio che il vangelo stesso darebbe.
3) Mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne
il maggior numero: il modo nuovo per farsi ricco e per avere un grande
guadagno è per Paolo farsi servo di Cristo (7,22) e quindi di tutti, come la
suocera di Pietro nell'episodio evangelico. Il vangelo deve raggiungere tutti,
perché è potenza di Dio per la salvezza
di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco (Rom 1,16). Per questo
anche nel vangelo di oggi Gesù dice: Andiamocene
altrove, per i villaggi vicini, perché io predichi anche là.
SPIGOLATURE
ANTROPOLOGICHE
Mai come in queste settimane abbiamo avvertito la responsabilità delle chiese in ordine a quella predicazione del Vangelo che Paolo con tanta forza oggi ribadisce come la sua massima preoccupazione. Far mancare “il giudizio delle nazioni” è tradirle: È ignorare la triste e drammatica prigionia dell'esistenza umana, come ribadisce con forza il grande testo di Giobbe. Ed è soprattutto seppellire il talento divino che ci è stato affidato per la salvezza di tutto il mondo.
Certo, la tesi di Giobbe è uno spartiacque assoluto nell'interpretazione della storia. Solo il cristianesimo, portando a piena maturazione la profezia ebraica “comprende” il dramma della storia prigioniera del male e della morte, e non si sottrae a quell'enigma assoluto del Male che il libro di Giobbe vuole affermare impedendo le illusorie scorciatoie di spiegazioni insufficienti. Il Male resta inspiegato. Ma Dio lo assume come il “suo” problema e l'affronta con la totalità del suo impegno nella storia umana, fino al sacrificio del Figlio.
Anche rispetto all'Ebraismo l'annuncio cristiano rappresenta una svolta radicale. La memoria evangelica di oggi lo sottolinea con il verbo “uscire” usato all'inizio e alla fine del testo di Marco: prima per dire che Gesù esce dalla sinagoga, cioè esce dall'antica economia di preparazione e poi per dire che “per questo” è uscito dal Padre. Dunque oggi il male insormontabile che tiene prigioniera la storia e il potere assoluto di liberazione portato dal Figlio di Dio si fronteggiano. “Tutta la città” è davanti alla Porta della salvezza che è Lui. È notte, ma Lui è venuto a spezzarla. Entra nella casa di Simone per dire che la relazione con Dio si attua non attraverso una nostra evasione dalla storia prigioniera e imprigionante verso di Lui, come suggerisce tutta la fenomenologia religiosa, ma attraverso il suo ingresso nella nostra prigione. La donna ammalata è una immagine efficace dell'umanità stesa nella sua infermità. Egli la solleva, e il verbo dice risurrezione, prendendola per mano, e dunque stabilendo con lei una comunione nuziale che “è” la salvezza e la vita nuova di questa donna che ora diviene segno dell'umanità salvata e risuscitata per una diaconia di comunione che esprime efficacemente la sua nuova condizione.
Ma la stessa preghiera di Gesù manifesta anche Lui come un “Salvato”, nel senso di questa condizione figliale e insieme divina, quella che poi è donata a noi come a quella donna, dove la “divinità” non è “rubata” a Dio come voleva l'antico Serpente e come vogliono di fatto le “religioni”, ma è totalmente ricevuta dal Figlio e dai figli per la grazia del Padre.
Il viaggio “necessario” del Figlio che lo porta via dal villaggio del mondo sottolinea la responsabilità che resta a noi. Nella casa di Simone non c'è stata una conversazione-discussione sulla legittimità della guerra, ma è stata data un'icona reale di che cosa sia la Pace di Dio, quella che Cristo è venuto a dare come la sua Pace, non come quella che dà il mondo. La pace è il suo “fare la pace” fino al Sacrificio d'amore della Croce. Adesso questa “Pace-fare la Pace” è affidata a noi. Non il pacifismo di cui veniamo accusati con buona ragione, ma appunto questa Pace che è la nostra responsabilità storica più alta.
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