Oggi esce un numero speciale de La Stampa dedicato tutto all’Africa, in occasione del G8. Nella versione on line (clicca sull’immagine a fianco) sono riportati i 30 interventi di personaggi importanti di oggi, trenta modi di dire Africa, fotografie e video. Provate a leggerne qualcuno.

Riportiamo qui di seguito quello del Cardinal Martini e di Romano Prodi.

CARLO MARIA CARD. MARTINI
Sono stato in Africa per la prima volta nel 1980. Si trattava di una visita in Zambia, che mi fece conoscere le bellezze di quel Paese e il suo lento ma sicuro procedere per la via della stabilità economica e finanziaria. In seguito fui in molti altri Paesi. Mi impressionò favorevolmente soprattutto lo stato di benessere raggiunto da molte parti del Kenya, che visitai nel 1985. Si aveva l’impressione di una continua e solida crescita nella qualità della vita.

Poi tutto questo cammino si fermò, e ogni volta ritrovai un’Africa più povera e diseredata. Molte ragioni furono addotte per questo cambiamento in peggio. Lo scatenarsi di lotte tribali, il ripiegarsi sul proprio clan, la corruzione di non pochi funzionari pubblici, ecc. ecc.

L’Africa ha certamente molte debolezze, come la molteplicità eccessiva delle lingue, la carenza cronica di acqua in certe regioni, la difficoltà dei collegamenti ecc. Ma ha anche grandi risorse, un clima che permette in particolare molte coltivazioni di frutta, dei paesaggi stupendi e soprattutto una umanità, una cordialità e una solidarietà parentale che non si dimenticano anche dopo molti anni.

L’Africa in questo momento ha grande bisogno di aiuto disinteressato, che le permetta di ricostruire le istituzioni venute meno e la provveda di uomini politici attenti al benessere del continente e del loro Paese, al di là degli interessi puramente tribali.

Ci si augura che il prossimo G8 sia attento anche a queste realtà, come lo sarà per tante altre in difficoltà, in particolare per la città e la regione dell’Aquila. Un mondo che proceda in unità e corresponsabilità è un mondo che può preparare ai futuri cittadini un modo di vivere più conforme alla dignità umana, con tutte le conseguenze che seguono da tale situazione.

ROMANO PRODI
Negli ultimi anni, in molti paesi dell’Africa, si sono visti alcuni importanti segni di sviluppo e veri passi avanti nella vita democratica. In tanti altri, invece, la fame, le malattie, il terrore sono ancora presenti e paiono non lasciare speranza.

E in Africa, più che in ogni altro continente del mondo, c’è la guerra, anzi ci sono guerre. Ed è esclusivamente di questa tragedia che voglio occuparmi in queste mie brevi riflessioni.

Dal Corno d’Africa, ai grandi Laghi, all’Africa Occidentale, i conflitti sono endemici.
I costi sono altissimi in milioni di vite umane spezzate e miliardi di euro consumati. I problemi associati (infrastrutture distrutte, disastri ambientali, epidemie e così via) fanno a lungo termine più danni dei conflitti stessi. La conseguenza di tutto ciò è che i tentativi della comunità internazionale di alleviare la povertà si dimostrano molto spesso inefficaci.

Dove c’è guerra non c’è sviluppo, ma è anche vero che dove non c’è sviluppo è più facile che nasca la guerra. Nello sforzo di mantenere la pace, la comunità internazionale ha speso risorse notevoli negli ultimi anni. Nel bilancio delle Nazioni Unite le risorse dedicate al mantenimento della pace sono intorno ai sette miliardi di dollari all’anno. Sembrerebbe una cifra rilevante, anche se essa supera di poco quanto viene speso in un giorno nel mondo per il cumulo delle spese militari. Tuttavia le forze delle Nazioni Unite vedono oltre centomila persone coinvolte, con una crescita esponenziale a partire dagli anni ’90.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha infatti la piena responsabilità per quanto riguarda "Pace e Sicurezza", e questa responsabilità deve rimanere nelle sue mani. Pace e guerra sono responsabilità delle Nazioni Unite. Tuttavia di anno in anno è diventato sempre più chiaro che questo compito non può essere svolto senza un coinvolgimento molto più profondo delle Istituzioni Africane, dalla Unione Africana alle Organizzazioni Regionali.

La Unione Africana (che ha come modello l’Unione Europea anche se è ancora in una fase molto elementare della propria organizzazione) si è resa ben conto della necessità di sviluppare una capacità propria di rispondere, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, alle crisi del continente.

Ma mentre la capacità di intervenire militarmente può essere una parte della soluzione, è ben chiaro che la pace nel Continente Africano non può essere raggiunta con il solo spiegamento della forza militare. E’ fondamentale che la comunità internazionale, l’Unione Africana e i diversi stati africani, possano agire prima che gli eventi portino alla guerra. Quando la guerra è cominciata le azioni di pace sono meno efficaci.

Attività associate, quali la prevenzione e la risoluzione dei conflitti, la ricostruzione delle infrastrutture materiali, delle strutture produttive e delle istituzioni pubbliche, debbono costituire parte integrante della capacità di mantenimento della pace.
Perchè tuttavia, un problema così grande possa essere affrontato con successo, serve un cambiamento profondo dell’atteggiamento dei paesi più avanzati presenti in Africa.

Abbiamo bisogno di strategie a livello continentale e locale che sostengano i grandi sforzi dei leaders politici africani dedicati a sviluppare la capacità di governo e di stabilità che sono indispensabili alla pace.

Questo è il motivo grazie al quale nel rapporto del Gruppo di lavoro nominato congiutamente da ONU e Unione Africana, e da me presieduto, abbiamo suggerito con forza di creare alcune condizioni indispensabili per far crescere la partecipazione della Unione Africana a tutte le decisioni riguardanti la pace.

Abbiamo proposto di far nascere, grazie ad adeguati meccanismi di finanziamento, una capacità di ‘peacekeeping’ nell’Unione Africana in modo di trasferire agli africani una crescente, nel tempo, responsabilità nelle operazioni di questo tipo, come è già stato fatto con successo da parte dell’Unione Europea.

Quando tre mesi fa ho presentato e discusso il nostro rapporto al Consiglio di sicurezza ho visto tuttavia che, da parte di alcuni dei più importanti paesi che ne facevano parte, non vi era molta disponibilità a trasferire poteri (‘Empower’) di "Peace Keeping", all’Unione Africana, anche se solo in parte e progressivamente nel tempo. Le posizioni degli oltre 30 paesi intervenuti al dibattito del Consiglio di Sicurezza sono state molto variegate . Da un lato Cina, Italia e molti paesi Mediterranei sono favorevoli ad attribuire all’Unione Africana un ruolo sempre crescente. Dall’altro, fra i paesi nettamente contrari, vi sono Francia , Gran Bretagna e Giappone.

Ascoltando le parole di questi ultimi non ho potuto evitare di pensare che la opposizione ad un progressivo trasferimento di potere ai paesi africani nel processo di ‘peacekeeping’ fosse fortemente influenzato dal passato coloniale. Uno stato d’animo molto pericoloso per il futuro dell’Africa e del mondo intero, perché non tiene conto dei problemi che emergono dalle vere e profonde radici dell’Africa e dell’origine dei conflitti, spesso di natura tribale.
E che chiama i paesi ricchi ad intervenire con i loro mezzi ed i loro modi, anche se, sempre più spesso le truppe da loro finanziate non sono certo formate da militari degli stessi paesi ricchi, sempre più riluttanti se non radicalmente negativi riguardo all’invio di propri soldati per il mantenimento della pace in Africa.

A me pare chiaro che questa sia la scelta sbagliata di una cultura vecchia. La maggior parte delle situazioni di conflitto in Africa non sono la causa delle guerre, sono principalmente la conseguenza del mancato trasferimento di poteri e capacità agli africani e alle loro istituzioni. Dobbiamo farlo presto per evitare che nuove grandi tragedie si sviluppino senza possibilità di controllo.