Giovanni NicoliniZaccheo02
Dalla rubrica IL TESORO NEL CAMPO su “Jesus” di Febbraio 2014.

Mi piace scrivere di un tesoro quando l’ho trovato. Questa volta scrivo con il cuore più sospeso. Parole che ascolto e avvenimenti di cui sono testimone mi fanno pensare veramente ad un grande tesoro che stiamo per scoprire. Un grande tesoro di cui mi sembrano evidenti i segni, e già anche i primi frutti. Ma è così grande il tesoro che inevitabilmente ne scrivo in un incrocio di emozione, commozione e ansia di cui mi è doveroso avvertire i lettori. Da molto tempo, molti desiderano che finisca per sempre il regime di “cristianità”. Ma il tema è così delicato che solo esprimere tale pensiero è un po’ rischioso. Qualcuno potrebbe reagire negativamente: perché desiderare la fine della cristianità? Che cos’ha di male la “cristianità”? Il tema e il problema sono immensi, e qui non possiamo che rischiare d’essere banali facendone un brevissimo cenno. La cristianità è la relazione, il legame e l’abbraccio tra la fede cristiana e le culture, le società, le etnie, le tradizioni alle quali giunge l’annuncio di Gesù. Il segno e il sogno di Costantino imperatore – “in hoc signo vinces” – aprono la prospettiva che dal cristianesimo possa e debba nascere la cristianità, e cioè un modello, un volto delle società e delle loro culture che rispecchi e attui storicamente la fede di Gesù nella vita di un popolo. Dall’antico giovane imperatore sino all’ultimo vecchio Francesco Giuseppe imperatore a Vienna, il Sacro Romano Impero segna e condiziona fortemente il pezzo di mondo in cui viviamo. Ma di più: diventa un modo di pensare, diventa la cultura cattolica, l’università cattolica, il partito cattolico. E non solo questo. Diventa anche l’inevitabile “mondanizzazione” del costume cristiano! Trova spazio nell’etica dei cristiani anche la guerra. E la pena di morte. E una giustificazione assurda della proprietà privata. Ma, più profondamente, anche un attacco al mistero della persona e della sua coscienza, dove l’ineffabile evento della grazia divina e della sublime “avventura” della fede diventa un “ragionamento”, e la fede stessa una “dottrina”. In questi mesi sta accadendo qualcosa di straordinario e di inaspettato. In gran parte ancora quasi sommesso. Alla rigidità di un’etica razionale che neppure della fede e del Vangelo ha bisogno perché si appella puramente alla presunta “oggettività” della ragione, si va affermando con umile determinazione il primato assoluto dell’amore di Dio. Di quell’amore del Padre che ama i suoi figli così come sono: piccoli, poveri, peccatori, lontani. E con un privilegio di attenzione per chi di loro è più piccolo, e più povero, e più lontano dalla pace evangelica. Dio ci ama così come siamo, e non come dovremmo essere. Altrimenti, bisogna dirlo, non potrebbe amare nessuno! E ci ama non perché ci siamo convertiti. Accade piuttosto che talvolta ci convertiamo, perché vinti dalla potenza del suo amore. Siamo stati quasi tutti battezzati da bambini, perché fosse chiaro che il dono della salvezza e l’essere figli di Dio è dono assoluto del Signore, e precede la nostra storia, accompagnandola con la potenza infinita della sua misericordia. In questo orizzonte non c’è “il dentro o il fuori”, perché nessuno è fuori, a partire proprio da chi vive la sua breve esistenza alla periferia della pace cristiana, o addirittura del tutto fuori. La “manomissione” della parabola evangelica da parte di Papa Francesco è molto eloquente: smarrita non è solo una pecora su cento. Sono fuori dal gregge in novantanove! Non possiamo continuare a considerarci un piccolo gregge di presunti “giusti” in una mare di perduti. L’amore d Dio ci sostenga e ci spinga ad uscire da un ovile reso troppo angusto dalle nostre mondane rigidità. La potenza della misericordia divina che ogni giorno ci cerca nelle nostre lontananze e ci riporta alla dolce Mensa del Padre, ci renda capaci di servire gioiosamente al grande banchetto per la festa di tutti che quelli che come noi erano perduti e sono stati ritrovati. Erano morti e sono risorti.