Le letture di domenica 27 Febbraio 2011, VIII del Tempo Ordinario (Anno A), sono:
Isaia 49,14-15
1Corinzi 4,1-5
Matteo 6,24-34

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Matteo 6,24-34

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

24«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.

25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».

1) Nessuno può servire due padroni…. Non potete servire Dio e la ricchezza: Gesù non contempla il caso che l’uomo non abbia nessun padrone. Il Signore conosce bene il cuore dell’uomo, conosce il potere di seduzione degli idoli. Tutto l’insegnamento successivo vuole mostrare come l’idolo-ricchezza è un signore esigente, che schiavizza, che soffoca la libertà. Ben diverso è il giogo soave di chi si mette al servizio di Dio.

2) Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita: la parola “preoccupazione”, citata ben sei volte, è la chiave per far luce sull’idolatria. Adamo ed Eva, sedotti dal serpente e convinti di potersi affrancare dalla loro relazione di creature con il Creatore, cadono nella paura, si sentono nudi (Gen 3,10). Chi li difenderà, chi assicurerà la loro vita se hanno cancellato dal loro orizzonte il Dio che ha dato loro la vita? È’ un vuoto tremendo che va riempito, questa è la situazione dei figli di Adamo. Ecco allora la ricchezza, essa appare come una grande assicurazione per la vita.

3) E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita: questa frase aiuta a capire quello che il Signore dice su gli uccelli del cielo che non seminano e non mietono o i gigli del campo che non faticano e non filano. La vita dell’uomo è fatta così: il prossimo giorno, la prossima ora non sono in suo potere, solo Dio può provvedere alla sua vita. Il Signore fa notare quindi che il lavoro, il seminare, mietere, tessere… non servirebbero a nulla se non ci fossero i doni che Dio Padre ha elargito all’uomo e che l’uomo è chiamato prima di tutto a ricevere con gratitudine e poi, certo, anche a custodire, ad amministrare, a condividere con il suo lavoro.

4) Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede: la fede è il ritorno al rapporto di affidamento e di familiarità che c’era tra il Creatore e la sua creatura nel giardino dell’Eden. La fede non è una vita spensierata ed esente da guai, nella vita degli uomini c’è il fuoco della prova; la fede è la strada di ritorno al Padre al seguito del suo Figlio Gesù. In questa strada c’è la croce: Gesù insegna ai suoi a vedere nella croce il disegno di salvezza di Dio Padre.

5) Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta: è la sintesi finale di quanto detto sopra. Prima c’è il regno di Dio e la sua giustizia, dopo vengono la vita, il mangiare, il vestire, il lavoro,… Il regno di Dio e la sua giustizia consistono nell’amore, quello che il Signore ha rivelato nel brano del Vangelo di domenica scorsa: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori affinché siate i figli del Padre vostro che è nei cieli. Tutto parte dal più grande dono che Dio ha fatto agli uomini, suo figlio Gesù e il suo Vangelo. Chi ha incontrato Gesù e ha creduto al suo Vangelo, può rivestirsi di quella giustizia. Tutto il resto viene dato in aggiunta.

Isaia 49,14-15

14Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato,
il Signore mi ha dimenticato».
15
Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
Anche se costoro si dimenticassero,
io invece non ti dimenticherò mai.

1) Queste parole sono indirizzate agli ebrei in esilio a Babilonia e danno ragione dell’importanza enorme che il Sabato ha per la fede ebraica. Infatti l’esilio babilonese costrinse gli ebrei a investigare/reinterpretare la loro identità e il loro rapporto con Dio. Erano rimasti senza tempio, senza re e senza terra ed era impossibile compiere il culto sacrificale fuori dal Tempio di Gerusalemme. Come potevano conciliarsi la “sensazione di abbandono” (testimoniata dal v 14) e la “fiducia nella fedeltà di Dio” (testimoniata dal v 15)? Nella fede ebraica era iniziata una riflessione in base alla quale lo spazio sacro del Tempio di Gerusalemme venne nel tempo a trasformarsi nel tempo sacro del Sabato: quindi si poteva rimanere fedeli a Dio anche in mancanza del Tempio, con una liturgia inserita in un ritmo temporale settimanale. Il Sabato diveniva il centro della fede ebraica che quindi poteva essere praticata ovunque, fosse anche a Babilonia.

2) Sion ha detto: Sion è un nome di Gerusalemme che fa riferimento alle umili origini della città. Infatti è il nome del piccolo monte sul quale si trova tutt’oggi il nucleo originario di Gerusalemme, detto anche “città di Davide” perché fu il re Davide a conquistarlo.

3) “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato”: l’angoscia testimoniata da queste parole non deriva primariamente dalla situazione penosa in cui si trovavano gli ebrei a Babilonia ma è dovuta sia al fatto che Dio stesso sembrava esserne l’autore sia alla consapevolezza che l’origine dell’esilio era il peccato di Israele: tu non mi hai invocato, o Giacobbe; anzi ti sei stancato di me, o Israele. Non mi hai portato neppure un agnello per l’olocausto, non mi hai onorato con i tuoi sacrifici (Is 43,22-24a). Proprio in questa situazione penosa il popolo rinsalda la sua fede nelle promesse di Dio: se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia (Sal 137,5-6).

4) Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Questa prima parte del versetto 15 è decisiva proprio perché non indispensabile ai fini del ragionamento. Il profeta infatti poteva semplicemente rispondere a Sion dicendo che Dio non l’avrebbe mai dimenticata. Ma qui c’è ben di più! Dio viene presentato a noi “come madre” per farci comprendere in che senso e fino a qual punto noi abbiamo bisogno di lui e da lui dipendiamo. Non per un rapporto giuridico, fosse anche la promessa fatta ad Abramo o quella fatta a Davide, ma per una relazione d’amore, come quella tra madre e figlio. In tal senso queste parole sono profezia dell’incarnazione di Gesù Cristo, vero figlio di Dio e vero Figlio dell’Uomo, primogenito tra molti fratelli (cfr. Rm 8,29).

5) Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. (LXX: Se anche una donna si dimenticasse: cioè l’amore di Dio per il suo popolo è più grande di ogni amore umano. E tuttavia questa affermazione rimane misteriosa perché spesso la realtà sembra smentire l’amore di Dio. Sembra proprio che Dio ci chieda un affidamento totale a lui, contro ogni ragionevolezza umana. Gesù stesso si fa partecipe di questo mistero quando in croce inizia la proclamazione del salmo 22(21): Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Eppure proprio questo salmo esprime profonda fiducia in Dio e totale abbandono a lui: In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li liberasti; a te gridarono e furono salvati, in te confidarono e non rimasero delusi (Sal 22,5-6).

1Corinzi 4,1-5

Fratelli, 1ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. 2Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele.

3A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, 4perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! 5Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode.

1) Ognuno ci consideri come servi di Cristo: Paolo non si appropria del dono di Dio e come servo non si frappone tra il mistero di salvezza e l’uomo, ma diventa strumento di Dio perché la sua grazia, il suo amore, si possano adattare alla condizione di ognuno: ciascuno secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Chi parla lo faccia con parole di Dio (1Pt 4,10ss).

2) Ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele: un servo è fedele quando il patrimonio che ha avuto in affido viene usato e lavorato, per fare ancora più frutto ed è pronto a restituire tutto al suo padrone in qualsiasi momento: avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti… andò subito ad impiegarli e ne guadagnò altri cinque… Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque… Bene servo buono e fedele, gli disse il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone (Mt 25,14 ss).

3) A me importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano: a Paolo non interessa il giudizio del tempo presente e neanche cerca la facile gloria degli uomini. Il suo lavoro e il suo servizio non è più in un’ottica contemporanea, infatti neppure lui può misurare quanto, come e in quanto tempo l’opera di Dio che passa attraverso di lui, diventa salvezza per gli uomini: è forse il consenso degli uomini che cerco, oppure quello di Dio? O cerco di piacere agli uomini? Se cercassi ancora di piacere agli uomini, non sarei servitore di Cristo (Gal 1,10).

4)Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo: è il tempo necessario perché nessuno vada perduto, ma tutti abbiano la vita eterna: chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio (Gv 3,21).

SPIGOLATURE ANTROPOLOGICHE

Apprezzo molto i commenti limpidi e forti che accompagnano i testi biblici di questa domenica e che potete leggere nel nostro foglietto. Cercando di raccogliere tutti gli interventi, desidero trovare una parola che possa ulteriormente precisare la realtà dell’amore che anche in questa domenica mette in luce il significato più profondo dei testi. Per questo ho pensato di segnalarvi il tema del “dono”. Non sempre si è stati fedeli al compito di “amministrare” i misteri di Dio, come ci dice oggi S. Paolo, ed è molto diffusa una concezione istintiva del rapporto tra il Signore e l’umanità, rapporto concepito più come un “do ut des“, dove la vita cristiana diventa un faticoso accumulo di meriti che ripari le colpe e ottenga il premio. Questa concezione “commerciale” è certamente inaccettabile, anche perché rischia di orientare la vita umana verso un “ateismo reale”, che è quello che Gesù teme per i suoi amici farisei, convinti che la strada da percorrere sia quella di comperare la salvezza – che così non sarà più salvezza, ma merito e conquista – con la scrupolosa osservanza dei precetti, garantita da una serie infinita di precisazioni e di applicazioni che garantiscano la puntuale esecuzione della legge. A questo bisogna aggiungere anche il rischio di disonorare il mistero del Vangelo, sottolineando in maniera esclusiva l’impegno della vita cristiana in funzione di una “beatitudine nell’aldilà”, che non tenga conto della volontà divina di cambiare e fare nuova e bella la vita dell’aldiqua. Ed è pericolo di “ateismo” perché suggerisce l’ipotesi di una “autoidolatria” che costruisce una “giustizia” che di Dio non ha più bisogno.

Invece, tutto è “dono”, tutto è grazia! Ognuno ha, a livelli diversi, la responsabilità di “amministrare” bene il mistero di Dio. E quindi di comunicare a tutti il primato della grazia, cioè del dono, nella vita umana. Allora, è bellissimo che ci vengano incontro, sulle labbra di Gesù, le immagini degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. È bellissimo che si insinui in noi persino il sospetto di una certa “incoscienza” con quell’insistenza a non preoccuparsi. Sono proprio queste immagini a dirci che il “Padre vostro celeste” nutre gli uccelli e veste splendidamente l’erba del campo. Certo, si potrebbe obiettare che si tratta di un’economia per benestanti, e che i poveri del mondo – che sono molti! – non possono permettersi il lusso di una vita spensierata. Questo è purtroppo vero, proprio perché non si è tenuto fede al progetto di Dio che ci aveva collocati in un giardino delizioso dove si poteva mangiare da ogni albero, con l’eccezione di uno, quello della “conoscenza del bene e del male”, che Dio pensava imprudente consegnare all’uomo, che infatti tradirà la libertà del dono sostituendolo con il tremendo diritto della conquista e del possesso.

Invece tutto è dono, anche se non ce ne accorgiamo più! Anche i ragazzini della nostra scuola media eretica della pace vengono continuamente invitati ad accorgersi come il loro stesso andare a scuola sia un dono meraviglioso, da accogliere con gratitudine e affetto: “prima eri molto povero perché non sapevi leggere e scrivere, ma adesso hai ricevuto questo grande regalo”… fino allo stupore riconoscente di Francesco d’Assisi, grato al Signore per il sole, la luna, il fuoco… e persino per “sorella nostra morte corporale”: tutto è dono che ci è stato affidato perché lo amministriamo bene facendone partecipi tutti e tutte. Questo è dunque “il regno di Dio e la sua giustizia” che oggi deve essere ricercato prima di tutto. Tutto il resto – cioè tutto! – verrà dato “in aggiunta”, come nuova economia del dono. Se fossimo stati abbandonati e dimenticati, come è la sensazione che talvolta condividiamo con “Sion” della profezia di Isaia, inevitabilmente dovremmo arrangiarci con grande preoccupazione. Ma noi, invece, siamo amati da nostra Mamma che si commuove per noi, che siamo figli delle sue viscere. Immagino che “giangia” si darà oggi mia mamma in paradiso, per il complimento che il Signore le fa. Insieme a moltitudini di altre mamme che ci hanno dato la vita. È furbo il Signore a farsi rappresentare da loro! E loro sono gentili a dirci che nessuna di loro ha la tenerezza di Dio.