Caro don Giovanni, una domanda ironica di uno dei miei figli, che è credente e che frequenta regolarmente la nostra parrocchia, mi ha lasciato piuttosto sconcertato. A proposito della festa dell’Ascensione, mi chiedeva:"…e quindi dove è questo Signore, con il suo corpo? Una volta dicevate che era in cielo, ma adesso mi sembra difficile poterlo dire ancora" Non ho saputo dargli una risposta e adesso giro a lei il quesito. Mi stupisce in ogni modo che un quindicenne possa fare una domanda e trovarmi impreparato. La ringrazio se vorrà interessarsi di questo problema. Con stima. messaggio firmato.

Caro signore, non mi stupisco di una domanda che, per una certa "vanità" del progresso scientifico e della sua divulgazione popolare, sembra far vacillare affermazioni che accettavamo tranquillamente. E’ vero che forse non abbiamo neppure sentito il bisogno di riflettere su questioni che oggi possono apparire a molti di notevole rilevanza. Forse avremmo dovuto rendere ragione della nostra speranza con maggiore capacità di distinguere ambiti e linguaggi che, lasciati a se stessi, oggi possono creare qualche difficoltà. Dire che Gesù è asceso al Padre non vuol certo dire una direzione geografica. Anche l’angelo che si presenta agli stupefatti discepoli sul Monte degli Ulivi nel giorno che oggi la nostra Liturgia festeggia, contesta che si debba "guardare in alto" per cogliere il senso di quanto è accaduto. Il mondo invisibile è più in alto di ogni cielo, e insieme è più vicino a noi di noi stessi. Ma, come può suggerire una specie di contro-titolo della nostra rubrica domenicale, è decisamente "un altro mondo". Forse l’intenzione segreta e raffinata di che a suo tempo suggerì questo titolo per la nostra rubrica è proprio quello di mostrare che vicinissimo a "questo mondo" c’è appunto un "altro mondo", forse molto importante, e quindi da considerare con grande attenzione. Così, è in questa direzione che provo a dire una piccola cosa intorno al problema che lei mi pone da parte di suo figlio. Nella Liturgia di questa Domenica l’Apostolo Paolo interpreta la "salita" in alto del Figlio di Dio come la misura della nostra speranza. Per la fede cristiana mai speriamo abbastanza. E questo in due direzioni. Innanzi tutto perchè anche il nostro più audace progetto di bene per l’umanità è sempre inadeguato alla volontà e al disegno di Dio. Per questo il credente accetta di vivere sempre in una specie di inquietudine ansiosa, perchè è consapevole che ogni risultato positivo raggiunto sia dal pensiero sia dalla storia dell’uomo, è vero a condizione di essere semplicemente un passaggio verso prospettive ancora più ricche e tuttora insperate. E d’altra parte questa speranza è una sfida per la condizione umana, là dove la ferita e talvolta l’orrore della storia indurrebbero a desistere dallo sperare: non c’è nessuno e niente che non possa essere visitato e illuminato dalla speramza cristiana. E c’è un altro elemento che oggi mi sembra bene evidenziare. Ed è quello della responsabliità della storia. Questo "andarsene" di Dio è l’affermazione della grande responsabilità che ognuno di noi ha nella vicenda umana, la sua e quella di tutti. I maestri dell’ebraismo sottolineano il significato di un versetto del Salmo che dice che "i cieli sono i cieli di Dio, ma ha dato la terra ai figli dell’uomo". Il gioco sta a noi. La fede non è delega, ma al contrario assunzione di responsabilità. Dio non si lascia ingabbiare come un amuleto e non si presta a riti magici. La sua Parola ci è affidata ed è da giocare in ogni circostanza. Al credente in Dio è chiesto di vivere "come se Dio non ci fosse": o meglio, gli è chiesto che quel Dio che abita nel suo cuore sia la sorgente di parole e di gesti, di decisioni e di progetti che, immersi nel comune tessuto della storia umana, ne possano dire ora l’assoluta novità. buona domenica. d.Giovanni.